Parallelamente all’utilizzo del romanzo, nella poetica del poeta il teatro venne a fungere come mezzo per certi versi più funzionale alla diffusione del pensiero superomista dannunziano, stratagemma di “sbocco necessario di una letteratura strategica, ormai convertita all’attività di propaganda, all’uso strumentale del palcoscenico e alla ricerca del consenso di pubblici più ampi di quelli fino ad allora raggiunti”. Illuminato dal calore e dai raggi epici del sole greco durante il viaggio-crociera che egli intraprese in compagnia del “cenacolo” composto da alcuni tra i suoi più stretti amici e collaboratori, tentò di originare una scrittura drammaturgica moderna e titanica di teatro di parola e poesia, profondamente influenzata dal recupero degli stili della tragedia greca e tendente alla allegorizzazione della realtà “in nome del richiamo a eterni archetipi umani e naturali”, contrapponendosi, come una sfida perenne e sperimentalistica, alle scelte della scena borghese e verista con la pretesa superumana del recupero di miti, ma ricercando anche la possibilità dell’emancipazione dalla dottrina wagneriana, esaltata come esempio ed avventura, ma considerata comunque realtà strettamente legata all’ambito germanico.
Teatro rituale e di “passaggio”, si ammantava di paramenti ed ornamenti liturgici e di cerimonie rituali votate ad una suggestione collettiva emozionale (soprattutto della componente borghese) nella “mitologia di un immoto Destino da consegnare agli atti insindacabili di pochi dominatori”0, offrendo al pubblico, alla volta di una fortissima capacità di metamorfosi d’una nuova e ammodernata forma di ricezione, non prettamente ciò che normalmente era atteso, ma proprio quel che veniva abitualmente disatteso, utilizzando un’oculata programmazione della novità e del conseguente spaesamento dell’uditorio, dovuto anche all’innovativo utilizzo delle macchine sceniche e del linguaggio attoriale sempre più ristretto e rinchiuso all’interno del progetto totalizzante dannunziano: scene ricolme di un bric-à-brac di oggetti comunicanti null’altro che la propria presenza autosignificante, riferimenti ad eventi di cronaca contemporanea politicamente rilevanti o mondanamente accattivanti, masse di popoli in movimento e alla riscoperta della propria potenza di stirpe, giovani eroine superfemmine duramente contrapposte alle chiusure convenzionali del popolo ad esse attorniato.
Sulla base dell’esperienza estetico-politica portata avanti fin dalle conclusioni elaborate ne Il Fuoco, diverse opere teatrali quali La Nave, La Gloria, Più che l’amore, calate in ambiti storici e sociali differenti, si fecero veicoli delle ulteriori esemplificazioni catartiche che il poeta originò per quel popolo da educare alla riscoperta degli antichi valori della sacralità civile della Patria, e del dominio naturale del più potente.
Tra le realizzazioni più maestose ed elefantiache, le tre opere già citate si ergono indubbiamente quali affreschi storici ed epici maggiormente caratterizzanti l’immagine dello spirito di “riconquista” colonialista ed imperialista alla quale oramai il d’Annunzio si era votato anima e corpo; in esse risuona nuovamente, e con carico di roboanza declamatoria, quel richiamo alla natura dominante dei pochi sui molti, e quel “connubio riservato” e controllato tra i primi ed i secondi.
Incarnazione del tribuno romano e dell’uomo nuovo, scaltro e senza pietà, alla ricerca dell’elevazione al di là della sua semplice natura umana, Marco Gràtico, “grande e ardito di fare ogni cosa”, nella tragedia politica La Nave viene chiamato a liberare il suo popolo di lagunari veneti perduti nell’oblìo dei loro trascorsi e della dignità di popolo dominante ed erede latino, sconfiggendo prima d’ogni cosa colei che, superfemmina Basiliola e “bizantina”, agisce attraverso la sua arte seduttoria e sensuale al fine dello stordimento delle fibre del popolo italico, ed in un secondo tempo tutti coloro, tra cui il fratello del condottiero, che ebbero la volontà di opporsi al suo progetto imperiale. Un popolo di maniscalchi e maestri d’ascia, di guerrieri e di sacerdoti; un popolo antico e vario, diviso e contrapposto, in lotta per il potere, dove l’“impaccio erotico” fungeva da discriminante tra colui che risolleverà le sorti di tutti e coloro che verranno elevati ad un nuovo futuro di conquista; uno scenario popolare sovraeccitato e primitivo, vitalisticamente inafferrabile, dove la lotta si mutava in faida e lo scontro come dovuta strage, dove le orazioni e le liturgie sacre si confondevano con l’eros ed il sadismo. Un popolo contrapposto e sé stesso, e con vaghi tratti bestiali di folla attenuati dalla forma della poesia, ma conscio della sua gloriosa natura e del rapporto privilegiato con il mare (“La patria è su la nave”):
Chi guarda innanzi e non chi guarda indietro
ci conduca. Rinati siamo. In mare
ci ribattezza il nostro Dio. La nave
Ei dà per cuna al popolo novello.
Un’immagine popolare molto lontana dalla sprezzante barbarie fino ad ora dipinta; un’immagine fatta di uomini rudi e dal forte braccio, di una folla eccitata sia dal fascino sinistro di Basiliola ma anche, poi, dal messaggio di gloria e di redenzione che nella figura di Gràtico essi vedranno impresso, tanto da appellarlo col titolo di Eletto ed unto del Crisma, con chiaro intendimento di idolatria pagana. E ad essi Marco Gràtico si porgerà “in verità” e con “cuore intiero” quale guida e “navarca”, chiedendo che non innalzino lui stesso sul “timone sconficcato dai càrdini”, ma piuttosto la giovinezza “senza giogo” che il popolo della “patria nova” pervadeva, così che il simbolo della loro alleanza potesse divenire quella nave denominata Tuttilmondo la quale, armata e puntata la prora verso il mondo (chiara allusione alle mire espansionistiche caratteristiche delle realtà nazionalistiche alle quali principalmente d’Annunzio si proponeva chiedendone il maggior consenso), porterà la dominazione latina rinvigorita su ogni popolo, su ogni cultura, attraverso il corseggiare, e la redenzione dell’Adriatico liberato dai ladroni, così come il riscatto dall’esilio del Corpo dell’Evangelista Marco. Gràtico ripartirà verso il mondo con un ristretto arengo di compagni ed aristocrati, simboleggiando la necessità del restringimento a pochi eletti della possibilità decisionale ed attuativa, e testimoniando l’atteggiamento oramai ben chiaro intrattenuto nei confronti delle masse : l’esaltazione guidata di queste ultime al miraggio della rinascita latina, sotto gli auspici e le decisioni d’un piccolo gruppo di uomini ben consci del potere a loro concesso dalla superiorità della propria esistenza.
“Arengo”, quindi, come il gruppo di selezionati collaboratori che contorna Ruggero Flamma nella tragedia intitolata La Gloria, i quali, testimoniando l’unica fede esaltante possibile nel Capo che essi si sono scelti, e che, nella loro speranza, li condurrà alla visione dell’Uomo nuovo, sono convinti che l’esaltazione strumentale del popolo-Folla0, per giungere a fini di dominio dittatoriale e di sovvertimento del potere precedente, si unisca necessariamente allo sfruttamento della violenza delle masse “acefale”, manifestate attraverso l’utilizzo del colore nero identificatorio:
Un altro
La folla! La folla! Tutta la piazza è nera. Guardate! Guardate!
Un altro
Saranno quattromila, cinquemila…
Alcuni
Più, più, assai più. […]
Un altro
La città è nostra.
Al centro della trattazione, così come per Il Fuoco, erano collocati i grandi problemi che in quel tempo d’Annunzio avvertiva come fondamentali all’interno del dibattito politico ed ideologico, nonché estetico: la configurazione di nuovi uomini politici, la funzione degli intellettuali nel loro rapporto apologistico con il potere, il ruolo delle masse, e addirittura la gravosa urgenza di una necessaria riforma agraria in un’Italia pre-industriale.
Tutta la vicenda si articolava tra la salita al potere e la caduta di un giovane dittatore e “latino” ricercatore del superuomo, in una città non più romana ma estrapolata dalla propria concretezza geografica al fine di adattarsi, come canone astratto, a qualsiasi realtà urbana; Roma-non Roma, con i suoi capi parlamentari, dove la vita si mutava in continua e feroce contesa per la potenza decisionale, e l’attività civile si trasformava in una instancabile congiura di palazzo. Una città dove i congiurati di Flamma agivano convinti che oramai tutto dovesse denunciare l’avvento del tempo della distruzione d’ogni ordine preesistente al loro, e che fosse giunta l’ora in cui la folla dovesse essere scagliata, dalla voce dominante che la arringa da una finestra, contro i vecchi poteri; infatti, come afferma Giordano Fàuro:
Non chiedono se non di essere lanciati contro l’ostacolo da una voce tonante. Diffidano di noi. L’urlo li inebria; il pensiero li sbigottisce. Ma sono fervidi. Il distruttore può contare su quei toraci e su quelle braccia.
Nonostante la propria irrisolta, paura fisica della folla, Flamma, come Èffrena, comprenderà il patrimonio di forze ancora non compiutamente espresse di essa, e se ne farà scudo e arma d’offesa, senza mai venirne a contatto, per scardinare le ultime colonne di quel vecchio governo (giolittiano) incarnato nell’anziano ma tenace Cesare Bronte, immagine-oracolo della futura sorte dello stesso giovane dittatore:
[…] Ciascuno oltre le sue forze. Vi sono prodigi da compiere. La guerra della strada deve essere breve, rapidissima, quasi fulminea, condotta su tutti i punti nel medesimo tempo, unanime, decisiva. Nel moto irresistibile delle campagne è la nostra salute. Le bande contadine saranno il nerbo della nostra azione. […] Caduto nelle nostre mani il potere centrale, alla guerra della strada succederà la guerra sul confine e sul mare […] Tutta una stirpe che lotta di nuovo per esistere […].
Dapprima sostenuto dalle realtà contadine, ed autodefinitosi appartenente anch’egli a quella stirpe, Cesare Bronte cade e muore fisicamente dopo essere stato abbandonato da quella forza traditrice, inebriata e pronta a qualunque eccesso, che ora poneva le proprie sorti nelle mani di Flamma, il quale, sconfitto a sua volta dalla potenza della folla cittadina guidata dalla voce di un suo giovane avversario, Claudio Messala, e dalla stessa sua fratria che lo ha opportunisticamente abbandonato, morirà assassinato dalla traditrice eterna, l’amante del potere e di chi momentaneamente lo possiede, l’ultima Comnèna bizantina e dea “esiodea” trascinatrice di eserciti e tumulti, padrona del lato oscuro e sensuale d’ogni uomo. Morirà con il convincimento, insinuatogli dalla Comnèna, di essere stato tradito ed abbandonato dal consenso dalla folla, in quanto superiore alla misura popolare.
La lotta, dunque, tra uomini, al fine del raggiungimento del potere, lo scontro tra contadini e cittadini, rispettivamente schierati con Flamma e Messala, e la vittoria del secondo sul primo, si pongono chiaramente come temi del futuro conflitto tra ruralità e tecnologia, tra tradizione ed innovazione tecnologica; qui, come sarà soprattutto in Maia, la figura misteriosa ed esaltante della decima Musa, portatrice del messaggio di libertà comunale e di elevazione al di sopra del lavoro quotidiano, inizia a mostrare le proprie vesti all’assemblea di coloro che usufruiranno delle grandi mutazioni civili e sociali da lei annunciate0.
“L’eroismo delinquente” di Corrado Brando, nella tragedia intitolata Più che l’amore, si poneva infine, nei confronti di quell’“Italietta giolittiana dei Ministeri e della burocrazia”, in termini di “lampi” di carnale e violenta polemica, oltre che di desiderio di avventure esotiche “che facessero da battistrada alle rivendicazioni coloniali”. Lontano ed abbattuto dal lassismo estetico della Terza Roma mediocre e fastidiosa, e costantemente occupato nell’oratoria decantazione memorialistica di sé e delle proprie passate imprese in terra africana, Brando si presentava come l’incarnazione del rifiuto sistematico di un presente reale e denigrato in virtù dell’affermazione, costante e duratura, di un ideale superomista improntato all’“eterna gioia del divenire”, volendo mostrarsi, per contrasto, come quell’“allegorica celebrazione di un eroe prometeico, fecondo produttore di bellezza” e “non menomato da una colpa né disposto a sentirsi l’’attributo’ di un atto, ma solo accidentalmente ostacolato dagli impacci meschini della società”; sconfitto nell’inevitabile contrasto con la realtà frigidamente imperialista della nazione italiana, in quegli anni di governo liberale, e della situazione romana caratterizzata da “burocrazie paralizzanti e residenze involgarite”, attraverso l’omicidio di un suo creditore poneva le basi fisiche, ma ben lontane dalla ricercata connaturazione superumana, della sua ultima ed afflitta ribellione al sistema economico e politico basato non sulla potenza del pensiero e del gesto, ma sul commercio quotidiano di cariche e poteri. Egli si misura con le regole della società borghese, e ne è irrimediabilmente sconfitto a causa della mancanza del denaro e dell’intrinseca natura subdola di questo modello societario; Brando è sincero e schietto nelle proprie visioni, incapace però di muoversi “nel contesto della normalità borghese”, ma le istituzioni non sono schiere di negri da abbattere e da assoggettare, quanto piuttosto una macchina ben oliata nel suo costante moto immobile. Il suo posto da eroe è tra l’azione e la manifestazione più alta della temerarietà vitalistica, e proprio questa sua costante irrealizzabilità, nell’essenza più intima della sua natura, lo rende simbolo dell’impossibile connivenza tra la realtà borghese e la fattibilità dell’eroismo superomistico0.
Battezzata da un’introduzione di Gabriele d’Annunzio improntata sul ruolo del superuomo, dell’Uomo Nuovo nella società e sul suo rapporto con le realtà popolari e cittadine, mostra fin dal principio la situazione, in parte rassegnata ed in parte distruttivamente irrequieta, di strazio interiore, nella quale Corrado Brando si è venuto a trovare a causa della sua incapacità nel coniugare l’immagine della realtà cittadina ministeriale, a lui contemporanea, soggetta all’azione della “scrofola” e dell’“epilessia dei proletari”, con la costante ascesa dell’Uomo Nuovo, risultante della ricerca di quella libertà particolareggiante di dominio superumano. Il superuomo della scena dannunziana, quindi, “parlava […] il linguaggio della veggenza o della profezia, del recupero di un archetipo mitico del passato o della proiezione in un utopico futuro di trionfo, costringendosi comunque ad affidare solo alla parola, nel doppio registro del sospiro o del grido, la provocazione eslege che i tempi gli negavano invece sul piano dell’azione”. Afferma Valentina Valentini : “La Gloria, insieme a Più che l’amore, è l’opera del desiderio di azione, dell’eroe che si fa condottiero per intervenire direttamente a cambiare il mondo. Ma Bronte, protagonista, e Flamma, deuteragonista, fra vecchio e nuovo, conflitto non c’è. Bronte è la figura tratteggiata con maggiore vivezza, perché meglio conosciuta da D’Annunzio, verso la quale egli prova simpatia, perché è un uomo che ‘si è fatto da solo’, che si staglia rude di fronte alla decadenza delle altre classi. Ruggero Flamma è l’uomo nuovo che non è ancora nato, una virtualità, una proiezione dell’autore, che come lui ‘non ha mai potuto vincere l’orrore fisico della folla’, tanto che per poterla dominare deve collocarsi più in alto. È un eroe che infiamma con la parola, che si lascia possedere dallo sguardo della donna medusea che lo incatena alla sua volontà; è l’eroe nervoso, la cui volontà esita, che ammira chi non è destinato a lavorare sulla carta, ma su ‘la materia viva, su la colpa sanguigna’”.
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