Che cosa muta la pluralità delle genti, da moltitudini in folla, in massa, se non la comunicazione di una condizione estetica di esse stesse in virtù di un disegno precostituito ed idealmente tracciato di collocazione guidata nel mondo; essa è l’artificio per il raggiungimento ed il condizionamento attraverso un’“aura mass-mediatica” nobilitante e generalmente a-critica, in relazione al prestigio del medium ascoltato, il quale, comprendendo ed anticipando le necessità critiche del popolo, ne induce una visione alterata e precaria della realtà, trascendente dalla politica istituzionale nonché legata strettamente alle finalità delle elaborazioni private del potenziale “demiurgo” stesso, sfruttando metodi e discriminazioni tra i più svariati, ma genericamente tendenti all’ottenimento d’una consensualità generale liberata dalla portata disordinante delle considerazioni critiche individuali e non indotte. Nel caso dannunziano, la guerra, il trionfo della latinità e la difesa ad oltranza della Bellezza si pongono come “miracolo […] di un’azione incisa realizzata attraverso procedimenti simbolici e comunque incongrui rispetto al risultato”, così come per la democrazia sarà, per esempio, la corsa al voto. Il poeta-vate delle masse è dunque colui che, leggendo ed interpretando le fasi caratteristiche della società, ne tramuta le limitazioni e le tradizioni in eroismo superante le “illusioni di naturalezza”, vagliandole costantemente in base ai canoni della modernità essendo il mondo, in fondo, null’altro che un insieme decifrabile di “emblemi, allegorie, geroglifici ed enigmi da leggere, un folto di verità formate e di divinazioni inespresse” in cui la predisposizione superumana del vate-interprete si manifesta nella comprensione sibilliaca dell’aspettazione epifanica e salvifica impressa nella natura più intima del mondo sociale; ed il mondo stesso è obbligatoriamente oggetto di travestimento artificioso, di dipintura ideale d’ogni realtà in previsione della collocazione della medesima nella sfera dell’opportuno o della inopportunità estetica e politica. Il poeta spregiatore della volgarità borghese e popolana, trova però ad attenderlo nelle trincee in prima linea proprio quei borghesi e quelle genti umili, ne saggia le capacità combattentistiche, le difficoltà ed il valore, e paradossalmente ne diventa (sempre attraverso lo specchio della sua visione idealistica e discriminante) difensore ed esaltatore; per cui le immagini dei feriti e dei morti, come già era accaduto solo letterariamente in Elettra, assumono una valenza martiriologica di testimonianza del coraggio in situazioni estreme, assumono la predisposizione (opportunamente manipolata dalle necessità propagandistiche e miticamente commemorativa) inculcata loro dal senso acquisito del dovere e della Bellezza al sacrificio sprezzante di sé. Ben conscio che il riscatto della bellezza potesse solo avvenire dall’insistenza sacrificale della vitalità nelle forme e nella fede veggente delle forze più intime delle genti (vedi appendice B), ed affascinato quindi dalla possibilità di manovrare e forgiare le sorti delle masse sul campo di battaglia, nonché dal contesto “irripetibile di una incandescente realtà esistenziale […] in vista della nuova ampiezza di massa dell’uditorio da suggestionare”, d’Annunzio poté ritrovare quegli stimoli necessari per dare inizio alla manifestazione di una nuova letteratura tendente interamente alla nobilitazione dell’intervento e del sacrificio di sangue, impegnandosi nella giustificazione a tutto campo dei contenuti della guerra e della violenza su base storica ed epica, nonché estetica, esaltando di volta in volta gli eroi (i quali diventeranno, in un secondo tempo, irrigiditi culti di un regime totalitario) che diedero lustro e sangue per la causa di un’ideale “patria latina […] sacralizzata da una sorta di immanente religiosità spaziale”, su quella germanica, e riproponendo le loro figure, assunte in un “limbo letterario dei valori puri” e rese quasi oggetti di natura fideistica nella comunione distaccata con la massa di soldati e di genti da loro comandati ed incitati al sacrificio estetizzante. La sua parola e l’azione si fondono in un continuum necessario e vitale in Verbo che si fa carne, intervenendo ed influenzando, quale animatore, le masse, fornendo ad esse identità e cultura. D’Annunzio, quindi, comincia a fare uso di Garibaldi “nella stessa misura in cui usa San Francesco, […] lo scoglio di Quarto, il e il maggio, il monumento, le vecchie camice Rosse […]”, optando per “gettare in campo con decisione […] tutto l’immaginario e il leggendario garibaldino, all’apice di una campagna interventista che non ha avuto ancora definitivamente ragione delle resistenze delle forze che recalcitrano a sentire questa come l’ora suprema […]”. La guerra, operando una manipolazione di trasferimento dall’ambito prettamente sacro ad un ambito di natura civile ed educativa in senso statuale, nonché di sovrapposizione dei due momenti, si tinse di “santità” facendo proprio il richiamo ad un Dio biblico della vendetta che ama il sangue e il sacrificio, che pretende la vittoria da ottenere con la dedizione totale, una serie di morti infiniti e che si manifesta come immagine intangibile, ma costantemente nominata, di chiara eco della esaltazione della stirpe in istante estetico sublimato; mistificando la carneficina, da massacro in olocausto sacrificale, ed infondendo nell’umile e sconfortato fante da trincea i colori e le virtù eucaristiche del Figlio dell’Uomo, nel pieno della elevazione di sé e nell’adempimento sereno della “scrittura” come parola del Dio-Stato-Bellezza, egli si immola al fuoco nemico, insieme ed in un tutt’uno desoggettivante con il suo Reggimento, per testimoniare la fede che lo caratterizza ed al fine di manifestare appieno, propriamente nel momento del vitalistico attacco, il più alto fine del connubio delle nature umana ed estetico-civile, negando i limiti della fisiologia e facendo propri strumenti demiurgici l’ardore guerriero e l’enfasi patriottica. L’immagine del Cristo-soldato che risorge dalle situazioni più disagevoli della battaglia, dal fango e dalle trincee, non si carica quindi del peso dei peccati del mondo al fine del suo riscatto nella pietà e nell’amore, ma se ne carica piuttosto le pene in virtù della sua superumana superiorità e potenza, “che non può patire sconfitte e dolore e perdite”, e che nel suo sacrificio provvede alla continua fornitura di sangue per il “fonte battesimale” della Patria, attraverso il quale sempre nuove schiere di combattenti protenderanno le intenzioni ad un fine eroicistico, e “bello”, del conflitto. Le figure dei soldati potevano vantare, in questi termini, una fisionomia individuale solamente nell’apposizione gratificante del contatto con il Vate-Duce, “mito della perenne giovinezza […] intramontabile, fenice continuamente rinascente dalle proprie ceneri”, che conferisce loro la possibilità di estraniarsi dal mutismo collettivo che li caratterizza quali elementi subordinati alla volontà di potenza dell’oratore; l’evocazione martellante delle ferite e delle mutilazioni prospetta, dunque, decisamente una funzione, evangelicamente ispirata, di dolore e gloria, di caduta in seguito al sacrificio volontario e di resurrezione susseguente nella bellezza escatologica della vittoria nazionale sulla morte del lassismo ideale e dello sconforto del coraggio, fondando i principi per una mistica dei feriti e dei caduti: “I feriti dell’assalto notturno, discesi dalle trincee scavate nelle petraie del colle, simili a un armento sublime giacciono sopra la paglia. […] Non si lagnano, non chiamano, non dimandano […]. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria […].”
Chiaramente, l’adozione d’un apparato liturgico-sacramentale, per certi versi di indubbia spregiudicatezza, e la manipolazione delle convinzioni più intime dei depositi profondi e religiosi dell’immaginario popolare attraverso l’utilizzo d’uno snaturato verbum caro factum est, venne ad intervenire direttamente nel rapporto coinvolgitivo e verticistico tra il poeta-soldato e le genti sull’altare della celebrazione votiva, instaurando, nella fusione falsamente populistica tra l’“io” ed il “voi”, uno strategico “noi” ricolmo di martellanti slogans, motti e comizi scenografici formulati ad hoc dove, tra la sacrale celebrazione delle certezze comuni in previsione di una unificazione degli intenti nazionali battezzati dal “vino mistico” del patto genovese, ed il più carnale e rivoluzionario “rituale orgiastico di massa” nella Roma invasa dalla phonè inebriante, il fine ultimo si palesava nell’instaurazione catartica di una violenza universalmente consensuale e bella, fondata sull’immagine di un generale “sanguinamento eroico nazionale”, liberatrice dai nemici esterni ed interni attraverso l’ausilio di un “disordine manovrato dall’ordine […] grazie a cui l’ordine si rilegittima dal basso”; infatti, come afferma Angela Felice: “il destino e la vittoria parvero risiedere solo dalla parte di quelle forze ingenue che, nei popoli, nelle nazioni, nei governi, incarnassero una mitica energia incorrotta contro le gabbie conservatrici di una pavida e laida vecchiaia spirituale e politica.”
Abbiamo detto, quindi, che per d’Annunzio l’azione si pone quale opera d’arte completa e suggellata dall’artista supremo, possa essere essa indirizzata all’assalto d’un obiettivo (come il volo su Vienna od il combattimento del Veliki) o, diversamente, tendente alla cultuale associazione di moltitudini in ascolto o inneggianti; la politica, di conseguenza, da etica della polis si tramuta in gesto alternativo alla scrittura del verso, esaltato dal demiurgo nel suo atto celebrativo, e collocato al di là della quotidianità e del tempo in una dimensione emblematica, dogmatica ed inalienabile, in poche parole “esemplare”. Scrittura ed azione divengono così, nella poetica dannunziana, un tutt’uno, nonché fonti reciproche di ispirazione, inserendo nell’immagine del sacrificio collettivo la realtà della guerra come “forma d’arte”, ispirata nelle sue posture non dai manuali di tattica e strategia, ma bensì dalla plasticità di situazioni pittoriche e scultoree, nonché istituzionali, aprendo la manifestazione del conflitto bellico ad una condizione museale dotata di canoni e regole, di misure ed estetiche decodificate ed esposte, dove si possano ammirare il “mito religioso del sacrificio”, “la sacralità del soffrire”, “il martirio di sangue”, e trarre da essi ispirazione per la lotta futura: “Intorno era l’Ade carsico, il fisso inferno di pietre, avvolto nel velo del novilunio velato. E un silenzio forte come un cemento legava le pietre, legava alle pietre i cadaveri; […]. E lontano, nella foschìa, in tutta la cerchia dell’orizzonte giulio, infuriava la battaglia infernale. […] pareva che i corpi stessi nella dolina fossero per levarsi e per accorrere, come accorrevano via via tutti quelli abbattuti nelle trincee”. Tutto, concepito dalla legittimazione di adempiere ad un dovere “sacro” imposto da una “religione di stato” dai tratti continuativi ma diversi rispetto al culto civile e laico della Patria e dell’unità di Essa, sfruttando immagini tipiche della tradizione cristiana ed adattandone spregiudicatamente le intuizioni alle esigenze della battaglia e della Vittoria sacrificale, consacrandone gli eroi e la loro azione, come corpo e sangue del Cristo, in un’Eucaristia estraniata dalla caratteristica peculiare del perdono, ma anzi caricata di furore e di propositi vendicativi; già Garibaldi, dopo tutto, era stato rappresentato dall’Imaginifico quale “buon pastore” delle greggi. Il linguaggio orfico e misterico si connubia di conseguenza con quello prettamente religioso, offrendo il primo le suggestioni nominalistiche trasferendo sulla guerra caratteri di vitalità, e, sulla Vittoria come esito finale trasfigurata nell’azione futura elevata ad opera d’arte, preannuncianti bagliori visionari propri intimamente dell’iniziale preparazione alla battaglia, mentre il secondo introduce nel farsi del pensiero bellico le immagini dell’altare e della moltitudine in laica preghiera, su cui ed attraverso cui la strage disumana si muta in sacrificio di fede, palesando il senso del cameratismo quale viaggio gioioso e solidale verso la morte da combattente. Il viaggio ed il ritorno dalle imprese aviatorie sono quindi intesi come escursioni funebri e di resurrezione verso e da un territorio di morte, in cui la morte stessa si coniuga con la gloria nell’istante deflagrante dell’esplosione delle bombe o, nella visione dannunziana, nello sperato schianto al suolo del velivolo in cui i corpi degli aviatori-compagni, accartocciati tra le lamiere sfondate ed incandescenti, potessero assurgere, nel rogo purificatore, all’onorificenza della donazione del proprio sangue al fonte battesimale della Patria, nutrita dal sangue stesso dei soldati e veicolo di infusione del dono dell’eroismo, dagli eroi-eletti, ai combattenti ancora in vita:
Appare come una struttura solida di legni di tele di metalli, ed è una sostanza spirituale. Sembra esanime, ed è tutta tesa all’anima come il veliero è gonfio di fortuna. […] tra motore e motore, tra fusoliera e fusoliera, per mezzo ai fili d’acciaio, nella carlinga piena di congegni, lungo il bordo levigato, il silenzio è un silenzio che a chi l’ascolta parla una parola indimenticabile. È il testamento del sangue. Non v’è parte che non sia aspersa. Il sangue è ormai fisso; eppure gronda sul mio capo quando mi curvo tra le ruote del carrello […].
Quanti richiami d’Annunzio spese nell’invocazione della “bella morte”, e quante celebrazioni sul sangue di Randaccio impresso a “sindone” sulla bandiera che avvolse il suo corpo! Gli Arditi, soldati “indannunzianiti” e scelti tra le truppe che con d’Annunzio combatterono, erano un chiaro esempio di questo elitarismo ideale e discriminatorio; essi vivevano a parte rispetto al resto della truppa, attendevano la bella morte non in una fangosa trincea, ma progettando e partecipando alla realizzazione teatrale e totalizzante delle imprese, conservando le proprie forze per i momenti di lotta più accesa. Edulcorando il momento del trapasso, cantavano canzoni e conducevano con sé in battaglia scritti del vate, si adornavano di cimeli bellici, di pugnali votivi ornati da motti dannunziani, di spille, d’emblemi, posavano per ritratti fotografici esaltando ed esagerando la fisionomia umana apportandovi variazioni di carattere ostensivo e particolareggiante, come chiome frondose o copricapi appariscenti, baffi protuberanti e pugnali stretti nei denti, estensioni simboliche di una idealmente negata, ma nel contempo esaltata nella sua negazione, funzione funebre dell’agire eroico. Manifestazione più alta del senso di gioventù gloriosa, la loro vita appariva dunque in contrasto radicale con il resto della milizia, che moriva negli anfratti carsici o nei solchi trinceali, e con la quotidianità della cittadinanza, dedicando all’esaltazione di sé, e dell’ora della propria morte, ogni istante ed ogni forza. Non per nulla, nella prosa dannunziana la vestizione di un aviatore pronto alla partenza si denota chiaramente quale rito preparatorio all’incontro, durante il viaggio nella morte, con il proprio destino o di vittoria, o di sconfitta e quindi di disonore, al pari di un guerriero che si dipinge il corpo e si adorna con vestimenti inconsueti per la quotidianità, in virtù del destino possibile che l’attende (vedi appendice D). Tra i fenomeni più interessanti di arditismo, ricordiamo le spericolate imprese progettate dal pilota Guido Keller, il quale creò addirittura un ufficio per i “colpi di mano” ai danni delle navi e dei convogli che trasportavano materiale bellico o civile al di là del confine, o verso altri porti, il tutto al fine di irritare costantemente la pazienza di Nitti e dei suoi funzionari, nonché di procurare sostentamento e divertimento alla popolazione fiumana; spacconate di un’entità non indifferente, constatando la portata alle volte dei carichi sequestrati, che avevano come costituzione proprio quell’estetica dell’attivismo, tanto cara al d’Annunzio combattente, e divenuta poi marchio inconfondibile del dannunzianesimo “uscocchiano”. Relativamente alle realtà d’elite che d’Annunzio indubbiamente privilegiava, non posso dirmi d’accordo con Gioacchino Volpe quando afferma la coscienziosa tendenza all’uguaglianza tra sé e i soldati presentata da d’Annunzio in alcuni frangenti dell’avventura bellica e fiumana; essersi intrattenuto presso il rancio con i combattenti, aver diviso un tozzo di pane con un giovane soldato abruzzese, o aver pregato tra la folla sui corpi dei caduti, non né giustifica, attraverso i tratti apparenti di un universalismo accomunante, necessariamente la vicinanza. Impiegando totalmente l’erudizione che lo distingueva dalla truppa e da parte del suo Stato Maggiore, la vicenda bellica dannunziana si colora consapevolmente di tinte discriminanti, dove l’ambito di massa si connubia alla fonte della rivelazione, per giunta distante e quasi costantemente auto-ostesa, nell’atto intrinsecamente educativo nella manifestazione esoterica prima, ed essoterica poi, di un messaggio iniziatico alla pluralità occulto ed incomprensibile. Il contatto con la folla si rileva non quale scoperta delle problematiche legate alla quotidianità di ogni singolo soldato, ma nella ricerca prettamente intellettuale e letteraria di quella forza nazionale di cui i soldati si palesano quale manifestazione fisica della stirpe in prima linea. Sempre e costantemente idealizzato, il corpo del soldato non è mai quello che effettivamente è; prima vivo ed attivo, poi ferito e mutilato, infine morto, sepolto e trasfigurato, esso non offre adito alla presenza della paura e di un orrore genuino di fronte alla guerra ed alla morte, ma la sua comparsa e scomparsa sulla scena bellica avviene unicamente in un frangente previsto, studiato e stereotipato dal d’Annunzio, e piegato strumentalisticamente alle esigenze di una poetica del sangue benedetto della Patria e di una valenza eroica “sorridente”, esorcisticamente funebre. Egli non è più un uomo, ma nell’offerta di sé alla causa diviene dono d’offertorio sull’altare della rinuncia di sé. Dando voce ai morti, e alla bellezza da cui essi sono ammantati, oltre ad una mistica delle ferite e delle mutilazioni la figura estetizzata della morte, e dei caduti che di essa si fanno opera d’arte tangibile, si palesano nel rapporto con coloro che ancora caduti non sono, e che vivono nell’aspettazione di essere introdotti, prima dal sangue degli eroi defunti, e poi dall’eroica dipartita nel fuoco della creazione bellica, nel Paradiso del valore più alto: la Patria e la sua Vittoria. Il rapporto con la morte diviene dunque un passaggio obbligato, da sperimentare in prima persona grazie al rischio, grazie all’ardore ed al dolore delle ferite, e, perché no, anche attraverso una sonora e sprezzante risata vitalistica ed esorcizzante all’indirizzo della nera mietitrice divenuta, cameratescamente, compagna di lotta odiata, perché ingorda ingannatrice, ed amata, perché veicolo principe della gloria personale e nazionale:
Siamo trenta d’una sorte,
e trentuno con la morte,
[…] Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
Eia, carne del Quarnaro!
Alalà!
[…] Tutti tornano, o nessuno.
Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno,
quella che non ci spaventa,
con in pugno la sementa
da gittar nel solco avaro.
Eia, fondo del Quarnaro!
Alalà!
E quanta disperazione nelle parole del d’Annunzio che, in un brano del Notturno, si strugge pel fatto di non essere potuto cadere con l’aereo in battaglia, e morire con il suo compagno e pilota Beppe Miraglia:
Rivivo i giorni funebri, ora per ora, attimo per attimo. Con gli occhi bendati, cerco di vedere. Con la fronte che mi duole cerco di comprendere. Quel che è accaduto sembra iniquo. La più dura necessità può apparir bella. Ma questo evento improvviso non ha altra bellezza se non questa che gli dà la mia passione. Noi conoscevamo il pericolo a cui ci eravamo votati con una libertà che non si rivelava se non a noi stessi in qualche sorriso fugace. Sapevamo che la nostra impresa era disperata, e non desideravamo di sfuggire alla bella sorte. […] La coppia virile, la coppia da battaglia, rinata nella creazione dell’ala umana, conduttore e feritore, arma d’altezza, arma celeste, maneggiata da una sola volontà […]. Il compagno è il compagno. Non v’ha oggi al mondo legame più nobile di questo patto tacito che fa di due vite e di due ali una sola rapidità, una sola prodezza, una sola morte. […] Ora la morte che doveva prendere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l’offerta, contro la giustizia, contro la gloria.
Effettivamente la guerra innesca nel poeta, con grande intensità, le energie fisiche ed intellettuali che, proprio nel desiderio dell’azione, mezzo per giungere al sacrificio ed alla bellezza, ne mette le sorti in costante confronto con la morte “degli altri, ma soprattutto con la propria”, incombente o mancata che sia; in una lettera fiumana a Riccardo Gigante, il poeta-comandante esemplarmente chiedeva “:- Dove li condurrò a morire?-”, riferendosi ai suoi Arditi in un momento di sconforto nelle vicissitudini politiche dell’avventura dalmatica. Gioacchino Volpe afferma che la parentesi bellica riuscì ad umanizzare d’Annunzio, sostituendo la totalità del dominio riservato all’eroe dalla diffusione del potere tra le masse che con lui avevano combattuto e che, più di tutti gli altri, avevano conosciuto il fuoco forgiatore della guerra; questo mi pare forse azzardato, poiché la presenza sempre più costante e regolare delle folle combattenti nella produzione letteraria e nell’azione, si presenta sostanzialmente come esercito ben regolato ed organizzato, le cui manovre, benché alle volte istrioniche o ardite, vantano un’intrinseca limitazione ad un raggio d’azione prettamente drammaturgico, teatrale, legato ad un canovaccio le cui intuizioni furono scritte e monitorate dall’eroe-profeta stesso: “Non eravamo preparati. Non dovevamo levare se non un mezzo milione di uomini. Ne levammo cinque milioni, ordinati in un esercito gagliardo e flessibile che s’avanzava al modo romano, assodando le strade e combattendo ‘là dove non era pur giunto l’artiglio dell’aquila’”. Insistendo sull’operazione di umanizzazione del poeta a contatto con le realtà di dolore e distruzione, cosa che anche Antonella Ercolani propone all’interno però di una cerchia aristocratica, e sul suo conseguente accantonamento delle pretese particolaristiche proprie del modello eroico, si cade forse nella tentazione di deconstestualizzare, dalla necessaria estetica della battaglia, la tendenza del poeta della “distruzione ideale” e del bagno di sangue dal momento speculativo, per lui di rinnovamento, indotto dalle esperienze dirette con il fenomeno bellico. Il soldato che muore, il sangue che sgorga, la fiamme delle bombe, le navi colate a picco, tutto era necessario strumento per la fantasia dannunziana, e tutto ne diveniva parte, trasfigurandosi, nella direzione obbligata verso la decontestualizzazione della quotidianità effettiva, in oggetto emblematico calato in una dimensione ulteriore ed intuitiva rispetto all’originalità degli eventi. D’Annunzio potrà anche essersi abbandonato, indubbiamente, a manifestazioni di gioviale cameratismo con i soldati, dividendo con loro il magro pasto o stringendo delle mani anche con un senso di affettuosità sincera; ma tutto ciò era limitato, a mio parere, ad una fredda manifestazione di vicinanza strumentale con le folle, non tanto per l’ottenimento del maggior consenso, cosa che d’Annunzio non reputò mai veramente importante al di là di alcune sue affermazione sull’inviolabile sovranità popolare, ma piuttosto per quel tentativo diretto di discernimento d’ogni realtà insita nella folla, al fine di trarne i famosi “baleni”, che tanto piacevano ad Èffrena, una volta tra le vie della città e contro il Parlamento, oggi sul campo di battaglia e sul terreno dello scontro “dalmatico” di vita. Ed a proposito di ciò, anche Borghese ne offre conferma. Cantore della Patria e delle Sue aspettative, nonché edificatore di una nuova coscienza del popolo, d’Annunzio poté dare sfogo alla mistificazione di sé e della propria azione, infondendo un timbro patriottico al culto dell’arte, e sfruttando inoltre momenti di particolare difficoltà; in uno di questi frangenti, il famoso incidente aereo che lo vide offeso gravemente all’occhio destro, egli assunse la penosa convalescenza come materia trattabile in ambito letterario, guidando una particolare situazione di infermità fino alla trasmutazione della propria persona in oracolo veggente, al limitare di luce ed ombra, in costante equilibrio sibilliaco tra un’ introspezione esotèrica e misterica, e la materializzazione di un futuro ritorno alla battaglia dopo un’assenza dovuta alle esigenze della solitudine comunicativa voluta dalla Divinità. Nella prosa del Notturno, “cronaca […] di un corpo immobile e solitario, capace di vivere in sé e di trascrivere in parole le metamorfosi magiche della conversione del dolore fisico in sostanza psichica e del dolore sentimentale in commozione corporale”, venne a mostrarsi la rinascita in germe di una epifania positiva della materia, “rinnovato atto di fiducia nei poteri demiurgici di una parola totalizzante”, caratterizzata sia dal ricordo sempre presente e costante del dolore passato di guerra, dei morti, degli eroi, del sangue, del “carnaio senza croci”, nonché soprattutto della impossibilità momentanea di convertire il verbo in azione, sia della certezza nella catarsi momentanea del presente in virtù della speranza sempre chiara nella presenza vitalizzante della bella giovinezza attiva, rigenerante le membra nello sfacelo della morte, “già osservata negli altri e paventata su sé”. In questi momenti di sconforto, il superuomo dannunziano non era però venuto meno, ma anzi si poneva alla base, come sempre, di tutte le scelte operate dal poeta; era lui a guidare il sentimento di intima sicurezza nella rinascita al valore ed al coraggio giovanile dopo la spossatezza, attraverso ricordi d’eroismo guerriero avversanti le chimere immobilizzanti della vacuità fisica, così come era sempre lui ad elevare, a monumento del culto, la lotta omerica tra l’Odisseo distretto nella morsa delle corde ed il canto ipnotico ed assopente delle sirene. Suggestione, questa, che prenderà Gabriele d’Annunzio anche in tempi più tardi, quando oramai anziano e prossimo alla dipartita si affaticherà nella stesura del suo ultimo testamento misticheggiante, Il Libro segreto, dove l’“Orbo veggente”, precursore invecchiato e coscientemente impossibilitato nell’uso della “parola di vita”, attendeva alla compilazione della sua ultima prosopopea di supersite alla carneficina bellica, e di “testimone in vita della propria fine”, manifestando, nell’esaltazione del suo combattimento con la morte, la titanicità della sua esistenza nelle sorti del Paese, istituzionalmente per lo più dimenticata; “monumento vivente, da ‘incensare’ in particolari ricorrenze, ma in pratica emarginato dalla vita pubblica e culturale del tempo.”
Relativamente alla sprezzante vitalità di d’Annunzio, e della sua spassionata esorcizzazione della possibilità del soccombere, Ledeen afferma che egli “non conosceva la paura, volava per ore in mezzo al fuoco antiaereo nemico, navigava per ore tra le più fitte tenebre nelle acque nemiche, sedeva per ore in trincea sotto pesanti cannoneggiamenti”, ovviando alla “banalità della guerra, improvvisando imprese degne di lui”; impegnandosi quindi in performances dalle tinte tuttaltro che banalizzanti il frangente bellico, ma conferendo loro addirittura lo status di skenè sulla quale, appunto, presentare al pubblico (mondiale) la grandiosità delle proprie produzioni catartico-tragiche, e dare origine ad una collocazione per la manifestazione della venuta del superuomo. Ciò viene confermato anche da Solmi. Effettivamente, la guerra diviene il momento che spinse l’interesse del d’Annunzio verso lidi più oblianti dell’aspetto prettamente nicciano dell’azione, concretizzando le sue posizioni in istanti di immediata decisionalità e comando, e sostanzialmente impratichendo le visioni più volutamente “eremitiche” dell’elitarismo demiurgico, in esperienze dirette di passione e di dolore, ed a cambiare il vate nazionale in poeta-soldato incidendo concretamente sul suo individualismo “esasperato e solipsistico”.
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