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Il Piacere ed il periodo napoletano: dal disprezzo alla pietas

Il Piacere inaugurò finalmente, nel 1889, dopo lunghi ripensamenti sia poetici e sia pubblicitari, l’impegno di d’Annunzio all’utilizzo del mezzo letterario del romanzo. Edoardo Scarfoglio, scrittore e giornalista amico di Gabriele d’Annunzio, sostenendo la grande predilezione del pubblico del secolo decimonono verso questa forma letteraria, ma soprattutto riconoscendo l’esistenza di una grande necessità di romanzi e di una imponente massa di materiale romanzabile, non si avvedeva che pure d’Annunzio, sensibile sempre alle forti opportunità pubblicitarie, in particolare presso ambienti borghesi e neo-nobiliari, si trovava nella predominante posizione di esserne già ben consapevole, prendendo, perciò, la radicale decisione di annunciare pubblicamente, non a caso sul finire del 1887, quasi profetizzando, “l’inevitabile vittoria futura del Romanzo, cioè della forma artistica più forte e vitale nella lotta “darwiniana” tra i generi letterari”. Oramai pienamente anticarducciano, e convinto dell’inevitabile crollo dell’apparato verista forte solo di una “patetica” e non wagneriana “estetica ristretta”, si apprestò ad applicare le proprie intuizioni stilistico-poetiche sperimentate nelle precedenti prove letterarie in un’impresa che doveva assumere i caratteri non più di una necessaria proiezione verso uno specifico o generale scopo conoscitivo del reale, ma ricercando un accordo tra “la viva analisi delle sensazioni esterne e la creazione logica di stati interiori”, per fondere insomma, con richiami non meccanicamente pre-selezionati, il metodo della descrizione naturalistica con quello dell’analisi psicologica. Il Piacere quindi poteva nascere solamente come romanzo–manifesto, studio oggettivo “di tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e falsità e crudeltà vane”, “nella presunzione […] di aver osservato quei vizi oggettivamente, attorno a sé, e nell’opaca coscienza […] di possederli nella propria natura e nella volontà ambigua del loro rigetto narrativo”. Ed è proprio in questa condizione di ambivalente perversione ed oziosa e viziosa parentesi che venne alla luce del mondo la figura di colui che fu definito anche dallo stesso d’Annunzio, in risposta ad Emilio Treves, come un “mostro”: Andrea Sperelli conte d’Ugenta, controfigura dello stesso d’Annunzio e delle sue conquiste estetiche ed inquietudini momentanee (così come tutti i suoi letterari superuomini potenziali); incarnazione di tutto ciò che il poeta stesso avrebbe voluto effettivamente far proprio ma che in realtà non possedeva, al pari di Tullio Hermil che, nel romanzo L’Innocente, assaporava ed ostinatamente ricercava la necessità del giudizio e del riconoscimento totale relativi alla superiorità esplicita della propria intelligenza, della propria sacra ed inviolabile individualità, incarnate in lui come in un essere non comune, quasi in un culto della propria rarità di esseri intellettuali ed etici che li ponesse, Sperelli ed Hermil, “fuori da ogni giurisdizione di giustizia”, e li rendesse estranei “ad ogni verdetto che non fosse promulgato da loro stessi”, niccianamente “al di sopra del bene e del male”, persuasi entrambi, anche nei momenti di maggiore spessore morale e conflitto interiore, dell’impossibilità di comunione col prossimo in virtù di una esaltazione della pura energia e della volontà. Conte per diritto di nascita, principe romano, e quindi, nella poetica dannunziana, “ideal tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo che il grigio diluvio democratico” rischiava di travolgere come molte delle “belle cose e rare, al pari di quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizion familiare d’eletta cultura, d’eleganza e di arte”; abituato ad aggirarsi nell’alta società romana dei ritrovi mondani, inserito con magnificenza, ma nel contempo con plausibile ed egotistico senso della propria natura di aristocrate, portandovi, grazie alla disinvoltura degna della sua persona, lo sprezzante distacco originato dalla regola aristocratica dell’habere, non haberi, cioè del “possedere, non essere posseduto”, in alcun frangente dell’esistenza.
E sarà infatti questa sua dannunziana incapacità di rapporto benevolo con il prossimo che confezionerà nel romanzo quelle immagini del popolo minuto, e pur delle realtà borghesi e nobiliari tanto esplicitamente sfruttate in tutta la produzione novellistica, figure delegittimate persino dal possesso di ogni più semplice istanza interiore e psicologicamente giustificanti la loro inadeguatezza sociale e civile, e, perché no, scenografica, per quella città che immortale da secoli ha brillato tra i vanti delle nazioni e che ritornerà al suo antico splendore di Nazione unica e Madre. Un ritorno quindi al vicino passato, alla però mai abbandonata idealizzazione delle masse ancora inelevabili in quanto inforgiate dal “fuoco” del grido dell’eletto oratore-profeta, artefice e rinnovatore d’ogni politica presente e futura; immagini del tutto lontane e scostate dal centro di tutta quell’opera d’arte che la vita del giovane conte incoronava della sua medesima natura, e collocate in ambiti marginali ma pienamente carnali e storico-geograficamente precisi nella loro rara manifestazione, caratterizzati da una malsana, insostenibile miserevolezza ambientale, fisica ed intellettuale, nonché dall’oppressione quotidiana da parte di quella “miserabile fatica” lavorativa, così inconciliabile con la tanto evocata condizione superumana; e saranno nuovamente carrettieri e garzoni di stalla intenti a staccare e trasportare cavalli imprecando volgarmente, o torme di butteri e di operai al ritorno dalla giornata lavorativa, occupati nel canto sguaiato e impudìco d’una canzone da bettola mischiata agli urli e alle risa gutturali esasperanti la tristezza del giovane principe, a far indietreggiare Sperelli evitando con loro alcun tipo di contatto; lavoratori dalle “facce livide” e dalle “occhiaie cave”, malati, attossicati con le bocche contratte e con mani fasciate ed insanguinate a causa del turpe lavoro, o di qualche rissa violenta scaduta nell’uso di lame volgari. Emblematico della realtà popolare distorta ed esaltata nel suo “orrore quotidiano” sostenuta dalle immagini disseminate nel testo, è questo cinico ed estremo quadretto di disperazione e di indifferenza anche tra poveri stessi, segno dell’inesistenza effettiva, nella miseria, di qualche rapporto e legame d’autentico amore e di vera speranza:
Tre o quattro uomini febricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo […]. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d’ardor bestiale. E l’ostessa […] teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente. […] Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l’interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fosse di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano. […] La femmina singhiozzava. Gli uomini febricitanti guardavano con occhi pieni di un’immensa prostrazione. Ai singhiozzi i due giovinastri fecero un atto d’impazienza.

L’utilizzo di espressioni quali “povera creatura” o “piccolo corpo” potrebbero indurre alla concezione dell’esistenza d’un elemento di pietà e di bontà misericordiosa nella scelta poetica dannunziana; personalmente, mi risulta difficile concepire questa possibilità come vera osservando la vasta esaltazione, nelle scelte estetico-immaginifiche, di tutte quelle caratteristiche testimoni di miserevolezza, depravazione e bassezza istintuale regnanti all’apice della modulata manifestazione popolare; ricordiamoci, inoltre, come afferma Angela Felice, che “per Andrea, come per Gabriele, l’idea e la pratica dell’arte costituivano lo scopo e il perno dell’esistenza, al punto da compenetrarla, da estetizzarla, da trasformarla in artificio, infine dal non poterla osservare o addirittura vivere se non attraverso la lente del riferimento estetico”; per d’Annunzio, la Bellezza e la manifestazione di essa rappresentano i canoni su cui tutto misurare e su cui tutto basare in funzione dell’incontrastata espressione del Bello assoluto, del culto rivelatore dell’Arte per l’Arte, e gli esseri umani, che inseriti nei testi si trovano a far fronte alle più disparate condizioni imposte a loro dal poeta, a null’altro possono servire al di là della funzione di comparse ai lati di quell’apice, di quella cruna estetico-ideologica rappresentata dal superuomo, che da un lato proietta verso l’elevazione, verso la comprensione del mistero dell’Arte e di sé stesso, e dall’altro abbassa o mantiene nelle condizioni di irraggiungibilità della pienezza di sé. I bifolchi, i pastori, i malati, “bruti” degni di morire “brutalmente” come i morti di Dogali (è già forse intuibile il primo germoglio dell’idea relativa alla “guerra purificatrice del mondo” che discrimina gli eletti dagli ineletti e che, attraverso la catarsi del fuoco della battaglia, rinnova gli uni e sopprime gli altri), si mostrano tali in quanto simboli scelti e necessari alla rappresentazione di tutto ciò che risiede al di fuori della vera virtù, e cioè della sovrumana conoscenza del Bello assoluto e civile riportato all’interno del vivere quotidiano, reso da ciò inimitabile; quindi, per essi non v’è alcun riscatto, misericordia o salvezza, poiché un’atteggiamento improntato su canoni di questo tipo presupporrebbe la possibilità del salto qualitativo, per loro impossibile in quanto di stirpe ed ambito rozzi ed ineletti, ed in quanto elementi votati nella poetica all’auto-esclusione incosciente dal luogo dell’esaltazione, nel Bello, di sè; non per niente, il costante contrasto-utilizzo-storpiamento intrattenuto da d’Annunzio con l’umanesimo cristiano offre un po’ più di luce chiarificante su questa posizione.
Se Sperelli, scenografo di dècors come il buen retiro ed appassionato amante, esteta parnassiano e mistico neobuddhista, o ancora pervertito maniaco sessuale oscillante tra “la salute e la stanchezza, tra la libidine e la nausea, tra la sensualità ed una impotente velleità di purificarla attraverso una nuova sensualità”, poteva essere proposto come “l’espressione moderna dell’assenza di valori morali e della mancanza di equilibrio”, anche l’aristocrazia non venne comunque esentata da quella berlina ridicolizzante così astutamente edificata dal poeta, benché sia proprio in essa che gli elementi delle più candide anime elette, e dei più interessanti artefici da emancipare da quella “moderna minorità”, si possono ancora trovare (Elena Muti, Maria Ferres, la marchesa d’Ateleta); lo scenario artistico delle chiese e dei palazzi romani apriva le sue porte a ben più squallidi panorami umani: l’inutile fatuità dei convegni mondani, l’avidità dei compratori d’aste, il pettegolezzo vissuto come un gioco perverso, ozioso ed ipocrita, la cupezza decadente degli incontri d’amore con le demi-mondaines, tutti aspetti di una rovesciata aristocrazia corrotta, spossata, profumata di vetiver e sensualmente esaltata, immemore dei tempi passati e persa in passatempi di frigida umanità; per non parlare poi dell’aspetto esteriore dei vari figuri, alle volte burlesco e satirico, alle volte grave e brutale, non così tanto diverso tutto sommato dalla massa sudicia, tanto vituperata, dei carrettieri e facchini:

[…] Per cinque luigi avresti mangiato un frutto segnato prima da’ miei denti e per altri cinque luigi avresti bevuto Champagne nel concavo delle mani d’Elena. […] – Io vidi qualche cosa di meglio. Leonetto Lanza ottenne dalla contessa di Lùcoli, per non so quanto, un sigaro d’avana ch’ella aveva tenuto sotto l’ascella…

 

– Il cavaliere Sakumi! […] Era un segretario della Legazione giapponese, piccolo di statura, giallognolo, coi pomelli sporgenti, con gli occhi lunghi ed obliqui, venati di sangue, su cui le palpebre battevano di continuo. Aveva il corpo troppo grosso in paragone delle gambe troppo sottili; e camminava con le punte de’ piedi in dentro […]. Le falde della sua giubba erano troppo abbondanti […]; la cravatta portava assai visibili i segni della mano inesperta.

Gli anni che seguirono l’abbandono della vita mondana della capitale durante e subito dopo l’avvento de Il Piacere, segnarono per Gabriele d’Annunzio una svolta, o per meglio dire, la scelta d’un diverso indirizzo stilistico anche in questo caso da molti criticato e giudicato come opportunista e non reale, non solo strettamente nei termini della sua produzione, ma anche nel rapporto con quelle masse popolari verso le quali, fino ad ora, dimostrava di aver avuto, come unico rapporto sincero, il disprezzo e l’ironia; i suoi interessi iniziarono ad estendersi verso tutto ciò che poteva portare a quel connubio tra gli studi tardo-positivistici di neuropatologia, molto in voga a quel tempo, e l’applicazione letteraria delle esperienze direttamente vissute a contatto con realtà degenerate e degeneranti: essendovi presente “una sola scienza al Mondo, la scienza delle parole”, ed esistendo tutto solamente “per mezzo del Verbo”, lo Stile diveniva quindi inviolabile e sovrano, “garanzia autosufficiente di una assoluta superiorità”. L’influenza dei messaggi caratterizzanti la dottrina del romanzo “alla slava” offrì a Gabriele d’Annunzio quel modello in cui “conciliare in modo nuovo la descrizione delle cose con l’analisi psicologica di una centrale soggettività umana”, mettendolo a conoscenza degli scavi nei “fermenti più occulti dell’essere umano” attuati da Dostoevskij, e di quel “nuovo esemplare della realtà scomparsa” proposto da Tolstoj, fornendo in tal modo alla sua scrittura romanzesca, nell’ottica inoltre di quell’assillante e necessario “o rinnovarsi o morire”, interessanti attrattive relative alla psiche “decomposta” delle realtà umane malate presenti in quei personaggi, rinfocolando nella sua poetica soprattutto quel già più che affrontato, ma sempre in un certo senso mai definitivamente risolto, dibattito-contrasto sopra le nature del bene e del male. Questa nuova sensibilità portò ad una prima e radicale rivalutazione, a mio parere veritiera solo in termini prettamente letterari e pubblicitari, del suo stile e della sua estetica, quale la presa di coscienza altamente critica relativamente all’isterilita immagine degli esercizi estetici del suo passato letterario, “crogiolati nell’artificio tecnico o eccitati nei contenuti solo da un gusto cerebrale dello scandaglio psicologico” complicato, “rispetto a una letteratura severa che aveva indicato la risposta alla malvagità, all’egoismo e all’aridità interiore nell’abbraccio fraterno della solidarietà e nella missione evangelica” pensando di rispondere al grave disagio sociale, politico e morale dell’uomo contemporaneo, con la soluzione della bontà e della pietà fuoriuscita dall’esperienza del dolore (miti, in realtà, più che autentiche convinzioni morali, come afferma Angela Felice), al fine di imprimere un netto contrasto nei confronti di quel “senso sofferto del destino umano”. Infatti, sconfessando già nel 1892, e soprattutto nel 1893, sia quella tendenza al pessimismo schopenhaueriano, fatto di “creature passive o deboli e mediocri”, che nel recente passato egli aveva più che coltivato, sia, impietosamente, anche la morale evangelica predicata dagli slavi, troppo severa ed austera, contrapponeva un progetto letterario e stilistico caratterizzato da una semplice e “virile” parola che giungesse profeticamente dopo tanta severità e dopo tanta pietà a esporre un concetto della vita più profondo, lasciando costante però quell’appello alla inviolabile dignità espressiva e formale del romanzo, dove l’esattezza lessicale e figurativa doveva conciliarsi ed unirsi ad una prosa dall’andamento musicale di ispirazione wagneriana, sola espressione artistica (musica) in grado di esprimere “i sogni e tutti i turbamenti più oscuri e più angosciosi” dell’anima contemporanea.
Studiare gli uomini e le cose direttamente e senza trasposizione alcuna, questo si propose d’Annunzio progettando i nuovi esperimenti letterari, ma anche denunciare le orribili fattezze di tutti quegli ambiti della nuova società romana ed italiana, umanamente ed architettonicamente degradati; e proprio come documenti pseudo-scientifici e pseudo-letterari vennero recepiti dai contemporanei ad una prima lettura, esperimenti di depravazione elevata a legge auto-regolativa, ingenuamente aristocratica, dove dietro l’alibi del pretesto scientifico e letterario venivano portate sulla scena le psicologie terribili ed inumane di due assassini (Giovanni Episcopo e Tullio Hermil) e la loro confessione liberatoria dei fatti avvenuti precedentemente agli omicidi che ad essi portarono; in particolare, soprattutto per le immagini della realtà popolare romana parallele alla condizione mentale e fisica dei personaggi ( che è l’argomento che qui maggiormente ci interessa), il Giovanni Episcopo risulta di maggiore interesse rispetto all’Innocente.
L’impiegato piccolo-borghese Giovanni Episcopo, sognatore di un futuro di grande diversità ed unicità tra gli uomini, tenta di elevare la propria condizione di deriso, umiliato ed offeso, di Cristo in passione, dalla misera realtà che lo circonda e dalla schiavitù che a poco a poco, grazie al dominatore e sanguigno Giulio Wanzer, si rende terribilmente presente:

Non ebbi più volontà. Mi sottomisi pienamente, senza proteste. Colui mi levò ogni senso di dignità umana, così, d’un tratto, con la stessa facilità con cui mi avrebbe strappato un capello.

Testimoniata da quella cicatrice-marchio causata dal vetro di un bicchiere gettato per sbaglio da quest’ultimo sulla fronte di Episcopo, la schiavitù alla quale l’impiegato risponderà attraverso l’atto violento e liberatorio del delitto introduce ad una realtà di oppressi e schiavizzati dal lavoro ingrato ed odiato, ed alle situazioni di miseria morale ed ambientale, persi in una tendenza edonistica votata al nulla assoluto e nelle esaltazioni sensualistiche e bestiali per la bocca e per il corpo della cameriera del locale da loro frequentato, Ginevra:

Un’espressione bassa, quasi bestiale, appare nelle facce di quegli uomini che hanno mangiato e bevuto, che hanno raggiunto l’unico scopo della loro vita quotidiana. L’emanazione della loro impurità mi ferisce così acutamente che io credo di venir meno.

Esseri umani senza alcuna speranza di redenzione e privi di qualsiasi desiderio di rivalsa, dall’alito vinoso e dai visi rossi come pezzi di carne cruda o ricoperti di pustole rossastre, maltrattati da tutti, martoriati e scacciati come intrusi dalle loro famiglie, come il suocero di Episcopo, figura rigonfia e mostruosa di malattia, accudito solamente da Giovanni e dal figlio di costui, Ciro, che morirà di tumore in solitudine e dimenticato dalla moglie e dalla figlia in un ripostiglio buio, luogo spaventoso della pazzia e dei “farneticamenti”; donne intente a partorire gettando urli lancinanti simili a quelli di una “bestia male sgozzata”, gridi di dolore acuto ed inumano recanti con sé l’immagine del sangue e del cinismo che fin dall’inizio accompagnerà coloro che nascono alla vita in una irrisolvibile condizione minoritaria. Una teoria di uomini avviliti e stanchi dell’esistenza a loro assegnata, ma rassegnati ad essa, perfidi ed animalescamente ricercatori del piacere e del sopruso, immersi in diverse realtà urbane non più esteticamente esaltate per la loro bellezza ed eterna fonte di fascino, ma dall’aspetto livido, asettico ed a volte cavernoso e degradato; untuosi, sudici e volgari ritrovi del degrado sociale in una Roma rovesciata rispetto al Piacere, un chiaro ribaltamento del senso del sublime come la bianchezza deserta simile ad un “lago di fuoco bianco” di piazza Barberini, o come la casa di Ginevra, collocata:
su per certe scale strette umide e sdrucciolevoli come quelle di una cisterna, dove trapelava da uno spiraglio una luce dubbia, verdognola, quasi sepolcrale: indimenticabile.

A differenza degli ambienti de l’Innocente, fondamentalmente rappresentanti interni borghesi ben arredati ed esteriormente di solida cultura familiare e morale, ma in realtà oppressivi e martoriati dall’insana manifestazione di una inguaribile e segreta crisi familiare, come Villalilla la quale, da una immagine di locus amoenus portatore di salvezza familiare dalla città mefistofelica, si tingerà dei colori sulfureo e violaceo, tanto cari ad Elena Muti quale instrumentum diaboli, nel contatto con le espressioni di una sempre più carnale manifestazione delle passioni sensuali di Hermil; inguaribile, egli, come il malato presentato nella composizione del Poema Paradisiaco intitolata appunto l’Incurabile, dove a scanso dell’assenza di descrizioni di cruente deformità causate dalla malattia, in un lucido, sicuro e pulito interno, ed in un letto che “fu già nuziale”, ma oramai privato di qualsiasi speranza di guarigione futura , un malato caricato della totalità del dolore umano, stanco ed in viso più bianco del lenzuolo che lo accoglie,

[…] si profonda nel guanciale,
appesantito d’un peso mortale.
E non mai volto d’uomo fu più stanco.

 

Pateticamente e vittimisticamente compiaciuto, Episcopo non poteva far altro che mantenere la sua condizione di schiavo deriso ed umiliato ed ingenuamente consolato da una quanto mai discutibile bontà personale, in quanto il superumano “genio del male” Giulio Wanzer, la moglie Ginevra che gli aveva aperto la sua casa ad una realtà di prostituzione, e perfino il suocero, che lo aveva portato nel tunnel dell’alcoolismo, servivano non alla manifestazione letteraria di uno spaccato impietoso su una individuale miseria psicologica, ma a mettere in evidenza quell’inesorabile legge di “un cupo destino esistenziale che svalutava i ‘fatti’ a mere repliche di una vita anteriore”, di una vita dove tutto era già stato vissuto e già provato, ponendo alla base di quella chiusa fatalità non la “bontà” o l’“amore”, ma una irrefrenabile brama di piacere e di egotismo. Giovanni Episcopo sposò Ginevra non per amore, ma per libidine, come si trascinò nella degradazione dell’alcool a causa dell’affinità elettiva, intrinseca alla sua natura, con il suocero; in verità egli non si dimostra altro che un povero bruto, assoggettato alla pari di tutti gli altri personaggi, come nelle Novelle della Pescara, alla poetica dannunziana della “scelta estetica della piaga, del tumore, della ferita”. Egli è debole, in quanto la crudeltà sensuale viene falsificata da un volontario, lirico impietosimento che mostra quanto il fondo di tutte le preoccupazioni umane sia profondamente ricolmo di laidezza, provocazione e volgarità.

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