Nacquero così le grandi opere del periodo superumano, e la prima fra tutte, intitolata Il Trionfo della Morte, vide la luce nel 1894. “Ideal libro di prosa moderna” costantemente in confronto con le suggestioni della musica e con la poetica di ispirazione wagneriana, dipanava la propria trama attorno alle vicende di Giorgio Aurispa, un tipico eroe dionisiaco e “discendente”, “novello Tristano” profondamente angustiato dalla conscia mancanza in sé di quel necessario equilibrio superumano, contrastato fra l’attrazione e la repulsione verso la propria amante-superfemmina e l’ossessione conseguente del suicidio come unico mezzo di catarsi dalla “bruttura pubblica”. La causa del proprio malore e della morte “ne’ suoi brandelli di porpora straniero ed esule e prigione”, si può riconoscere nella superficiale adesione al verbo di Nietzsche-“Intercessore di Vita” ed in quella ricercata riunificazione con l’origine della propria stirpe oramai definitivamente decaduta ed imbarbarita; così, nel tentativo di vincere la materialità del sesso vissuto con Ippolita, al fine di attingere “ragioni superiori di vita”, il suo viaggio, decisamente più mentale che sinceramente aperto alle realtà popolari, approderà alle rive della fede e della razza, le quali si mostreranno anti-esteticamente sotto le spoglie di una bestiale massa di uomini ricolma di deformazioni ed orrori corporei, coniugati alla mutazione della schietta fede popolare in morboso e perverso attaccamento ai miti generati attorno ad oggetti di culto trasmutati da un’iniziale posizione sacrale ad una secondaria deligittimazione paganeggiante, e tinti fortemente da colori scelti al fine di dipingere la loro presenza attraverso canoni di sgradevolezza somatica e disopportunità estetica, come il bruno ed il verde-olivastro, il giallognolo, il violaceo ed il sanguigno; in netto contrasto con la figura eternamente meravigliosa dello zio musicista, ascetico senza dio e spirito eletto tra tanta schiavitù, suicidatosi anni prima nella sua stanza:
Passarono con uno scalpiccìo greve, con il sentore acre di una mandra, addossati gli uni agli altri per modo che dal folto non emergevano se non le alte mazze in forma di croci […]. E crebbe in lui (Giorgio Aurispa), straordinario, il sentimento della mistica potenza che teneva alle radici la grande razza indigena da cui egli medesimo proveniva.
Dopo diverse iniziali esaltazioni, costantemente riportate al loro grembo d’oblìo attraverso l’azione degradante della superfemmina Ippolita, sterile e padrona d’ogni forma di asservimento al giogo della sessualità, nonché icona di quella rifiutata bruttezza insita nel male della rozzezza della plebe riconosciuta attraverso l’immagine dei suoi piedi nudi e tozzi, Aurispa si rende conto dell’inevitabile decadimento d’ogni possibile virtù in quelle carni portatrici del suo stesso sangue; l’assassinio di Ippolita ed il suo suicidio si pongono, quindi, effettivamente come l’annientamento del doppio degradato di sé, come ribellione alla bassezza e meschinità spirituale e fisica propria della natura d’ogni abruzzese e dell’Abruzzo tutto, dell’isterica madre, dell’ignominioso padre, del brutale fratello; visione più radicale e discriminante rispetto alla condizione della popolazione abruzzese ne La Figlia di Iorio, che affacciandosi alla scena dannunziana attraverso la decantazione del tema superumano esteso alle regole “della comunità primitiva”, regolarizzava i temi “trasognati” di un Abruzzo metaforico e “preistorico” fungendo da epico sfondo ad una immobile umanità “ritmata solo dalle leggi cicliche della natura e dal calendario religioso”, dove gli unici punti di riferimento si mostravano osservabili in quei legami di sangue e nella loro duratura preservazione, dagli agenti esterni e “satanici” (superomistici), della unità interiore nella sacralità del vivere quotidiano. Una comunità umana consciamente priva di slancio, luogo infero per eccelenza e contrapposto alla montagna come via salutis e dunque trasposizione italica dell’immagine biblica del popolo ebraico, legato alle leggi dei padri e fissato in una ritualità perenne, in cui tutto “è nuovo e semplice, e dove tutto è violento e […] pacato nel tempo medesimo”; luogo nel quale l’uomo primitivo, nella natura immutabile, “parla il linguaggio delle passioni elementari”, come l’inseguimento di Mila da parte degli uomini, ed attraverso cui l’agire stesso della popolazione, sulla base di una suggestione teatralmente modificata rispetto a Primo vere o Canto novo, “è quasi fuor di tempo, retrocessa in una lontananza leggendaria, come nelle narrazioni popolari”. Così, quelle immagini familiari nascono come la reazione naturale della coscienza ricolma di idealismi superomistici d’un uomo fondamentalmente debole, defraudata della propria teleologia dalla reale e pesante presenza di tutte quelle tracce ineliminabili di un ambito familiare inevitabilmente volgarizzato e corrotto dalla materia, dalle regressioni iniziatiche e degeneranti alle radici dell’essere30 di una infanzia inizialmente ricercata, ma poi inevitabilmente rigettata, sintomo d’un’obbligata e irreversibile distanza sociale.
Ippolita l’Invincibile quindi, come titolava inizialmente il romanzo i cui primi elementi risalgono ancora al periodo romano, ma invincibile quanto lei e chiaramente della medesima natura in contrasto con le posizioni di cultualizzazione dell’io di ispirazione barresiana, “postazione dalla quale si traguarderanno ora le masse”, saranno principalmente le manifestazioni di quella più terribile umanità in pellegrinaggio verso il santuario di Casalbordino, umanità abilmente ricostruita dal poeta come “inquietante contraltare dell’uomo d’intelletto che ‘pensa’ e ‘sente’” , volutamente e maliziosamente perpetrata per pagine e pagine di atroci tormenti e desolanti paesaggi dove prepareranno la via alla distruzione della “montagna aurispiana”. Compariranno mendicanti in cerca di elemosine, “mostri” dalle mani mozze e dai moncherini sanguigni, dal corpo inerte trascinato a fatica sui gomiti e sulle mani, dal gran gozzo grinzoso e violaceo o con escrescenze e debordanti tumefazioni sui labbri mostranti internamente le fosse nasali e le mascelle superiori; mendicanti dalle voci rauche, aspre, cavernose, irate, umili, singhiozzanti, tutte diverse e discordi come strumenti suonati con maldestra principiaggine e senza alcun senso del sublime35, testimonianti una sinfonia null’altro che proiettata verso fini di inconsapevole esaltazione del nulla e dagli esiti d’inattuabile misericordia cristiana; uomini devoti e nel contempo desacralizzanti, come Aligi, personaggio quasi apparentemente tratto dalla folla rappresentata nel dipinto di Michetti intitolato Il Voto, potenziale frenato e non espletato rispetto a quell’altro Aligi ne La Figlia di Iorio, ribelle Shaoul segnato da Dio e fuggitivo dalla casa dei padri, che si tramuterà sulla montagna nel Paolo di un nuovo “evangelo di differenza”
Il buon cristiano si avvicinò. Ansava, curvo su la sua mazza crociata, coperto di polvere, grondante di sudore, inebetito dal sole. Una collana di barba rossiccia, dalle orecchie girando sotto il mento, gli circondava la faccia sparsa di lentiggini; cernecchi (ciocche di capelli arruffati e posticci) gli escivano di sotto al cappello appiastricciati su la fronte e su le tempie; gli occhi cavi, convergenti verso la radice del naso, trascoloriti, ricordavano quelli dei convulsionarii […]. Costui discostò i lembi della pezzuola e mostrò una gamba di cera, pallida come una gamba cadaverica, su cui era dipinta una piaga violacea. Il calore l’aveva ammollita e resa lucida, quasi sudaticcia.
Donne in stato di estasi fanatica ed in continua salivazione, lingue ricoperte da patine giallastre, labbra seccate ed inumidite per l’eccessiva preghiera; pellegrini curvi sotto il peso di fardelli, pelli ricoperte da piaghe e croste purulente, tutti tormentati da mosche e tafani come bestie da soma e quasi in attesa della morte o di un miracolo inarrivabile. Un’insieme di malattie e deformazioni, manifestazioni di una medesima bruttura e storpiatura “epica e civile”, risultato dei più animaleschi connubi di questa terra abruzzese
Era uno spettacolo meraviglioso e terribile, inopinato, dissimile ad ogni aggregazione già veduta di cose e di genti, composto di mescolanze così strane aspre e diverse che superava i più torbidi sogni prodotti dall’incubo. Tutte le brutture dell’ilota eterno, tutti i vizii turpi, tutti gli stupori; tutti gli spasimi e le deformazioni della carne battezzata, tutte le lacrime del pentimento, tutte le risa della crapula; la follia, la cupidigia, l’astuzia, la lussuria, la frode, l’ebetudine, la paura […] le danze oscene delle saltatrici, le convulsioni degli epilettici, le percosse dei rissanti […] la suprema schiuma delle corruttele portata fuori dai vincoli immondi delle città remote […] tutte le basse tentazioni agli appetiti brutali, tutti gli inganni alla semplicità e alla stupidezza […] tutte le mescolanze erano là, ribollivano, fermentavano, intorno alla Casa della Vergine.
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