In conseguenza a questa scelta estetico-politica all’ombra del neonato superuomo dannunziano, ancora però ideologicamente inconsapevole di sé, fioriranno dalla penna di un Gabriele d’Annunzio influenzato dalla lettura dell’opera di Darwin condotta da scolaretto, e dalle poetiche naturalistiche e veriste, verghiane e zoliane, quegli abbozzi d’umanità prettamente abruzzese denominati come figurine, caratterizzate da uno “sperimentalismo provvisorio del dilettante” votato anche a quel necessario rinnovamento “per non morire” di eco quasi darwiniana, facilmente adattabili alla realtà popolana ed universalmente intesa; figure idealizzate di mondi e di vite associate sorprese e spiate da un osservatore “che ne coglie compiaciuto il soprassalto di qualche impellente bisogno”, della sete, della fame e dell’animalità lussuriosa dell’accoppiamento, oppure dell’estro eroicistico e romantico del sacrificio di sé per l’oggetto del desiderio, piegando al proprio “principio di animalità”, il ferino circostante e presentandosi al pubblico, principalmente borghese, sotto queste fattezze modellate, in parte, per spirito dannunziano di critica ed impietosa ricerca relativamente alle origini dell’autore. Egli, legato da un doppio filo alla terra dei suoi padri, ma “mai amoroso figliuol prodigo”, verso il suo Abruzzo provinciale e popolare poteva al massimo concedersi il lusso dell’ironia, o più spesso del disprezzo, tanto da far sì che la miseria degli altri desse risonanza al suo godimento, come “un’astinenza morale che stuzzichi l’appetito” (anche se Valeria Giannantonio precisa che gli accenni così veementi alla bruttezza del volgo non sono necessariamente imputabili ad una prospettiva del poeta, ma piuttosto inquadrati “in margine alle indicazioni di margini molto ampi di espressione di una poetica decadente”). Oltre a ciò, è convinzione che alla base della decisione di dare origine letteraria a quella serie di immagini esotiche, composte e pubblicate in raccolte di novelle e traduzioni-manipolazioni, in volumi o su testate giornalistiche tra il ed il , ed ispirate per giunta dal reale contatto con alcune realtà popolari abruzzesi (ricordiamo i viaggi e le cavalcate di d’Annunzio con Francesco Paolo Michetti attraverso il territorio regionale, le letture delle opere etnografiche del Finamore e del De Nino, il seppur negato, dall’autore stesso, rapporto con le opere a tema popolare e wagneriane di quest’ultimo), nonché dall’esperienza mondano–giornalistica protrattasi per diversi anni grazie alle mansioni di redattore presso diverse testate giornalistiche della capitale, si possa riscontrare una chiara e decisa scelta estetica, della quale abbiamo già discusso relativamente alle prime produzioni poetiche; una scelta estetica votata ad una idealizzazione, se non ad una eccessiva monadizzazione di queste immagini, che va oltre la mera e commerciale presentazione di un prodotto sul mercato, tanto che si profila in un’idea dell’incontro–scontro tra una realtà reietta, dove l’esteticamente “brutto”, dove la bruttezza figurativa e fonica idealizzata si coniuga alla cattiveria, alla bestialità, alla ferinità, ad una “superstitio” ancestrale di riti e litanìe, ad una “malevolenza” dello stato brado, ed addirittura ad una inconscia partecipazione necessaria con la realtà epica e genetica da parte dei personaggi. E lo sguardo dell’“uomo che osserva”, superiore ed esteticamente “bello”, di schiatta più ideale ma consapevole della propria origo gentis conterranea a quella demonizzata, ne opera una rimozione più o meno parziale al fine di affinare ciò che di diverso e migliore in lui si mostra come segno d’aristocrazia. Ecco quindi apparire, sulla scena della produzione dannunziana di questi primi anni, immagini favolose e favolistiche già in parte sperimentate dal futuro Imaginifico in Primo Vere e in Canto Novo, quali pantere, sirene, leopardi, scimmie, animali ed archètipi di lussuria, di fascinazione, di esoticità, nei confronti delle quali le umili comparse, prive quasi di una parola veramente articolata, non possono se non lasciarsi scavalcare, od immedesimare in esse, assumendone il nome, o per meglio dire quasi il verso, se non addirittura alcune fattezze, come la testa leonina di Cincinnato e la sua vita randagia da cane, o la bella Zolfina in sembianza di un “rosolaccio lussureggiante” perché ornata da una rossa pezzuola sul capo; come i bramiti della bella zingara Mila o ancora come il mietitore torvamente e lamentosamente cantilenante chiamato il Corvo nella novella Bestiame, finendo per essere impegnate solo in una caccia eccitata alla femmina o al maschio, spesso destinata, per la brutalità della legge naturale, a sfociare in tragedia:
Nella spiaggia lo chiamavano Dalfino; e il nomignolo gli stava a capello, perché dentro l’acqua pareva proprio un delfino, con quella schiena curvata dal remo e annerita dalla canicola, con quella grossa testa lanosa, con quel vigore sovrumano di gambe e braccia che gli faceva far guizzi e salti e tonfi da raccapricciare […].
Oppure:
Non era brutto Biasce: aveva due occhi grandi, neri, pieni di una tristezza selvaggia, quasi di nostalgia, occhi che rammentavano quelli delle belve in schiavitù […].
È di questo periodo, parallelamente e congiuntamente all’elaborazione pre-nicciana del superuomo-eroe dannunziano, che si vengono a creare le condizioni per la formulazione di quel concetto proto–superumano di “eletto” ( che pure sarà la base e si manterrà per tutto il discorso relativo alla superazione dell’uomo), presenza di spirito e di intelletto superiore, confuso costantemente (soprattutto durante il periodo romano de Il Piacere) con il dandy che lo stesso d’Annunzio incarna, e che trarrà dall’esperienza mondana vissuta tutte le suggestioni a lui necessarie.
Il poeta proponeva quindi un Abruzzo, come afferma Angela Felice, “già mitico e irreale, in cui le coordinate topografiche valevano […] solo come arcane suggestioni sonore in cui il tempo era ritmato dalla ciclicità delle stagioni, dei mesi e dei climi”, appunto una terra vergine degli uomini “non ancora imbastarditi dalla civiltà” situata al di fuori da uno spazio e da una storia concretamente misurabili, i cui abitanti, in un “tumulto di bestie e di uomini”, erano agiti solo dalle espressioni elementari che ne improntavano il volto e i gesti e che ne traducevano, senza equivoci, l’abbandono inconsapevole a una biologica sensualità della vita, dove il dolore viene dunque accettato “come un abbellimento del mondo”; vita biologica e sensuale come quella di Tulespre, guardiano “mugghiante” di porci, tutto “tozzo” e di “pelo rossiccio” (ancora il tòpos verghiano), che alla visione e all’odore eccitante di Fiora, “balda come una giovenca”, assume le posture d’un giaguaro strisciante tra l’erba per inseguire e ghermire la preda desiderata, o al pari del suocero della procace Nora, e di lei stessa, nella novella intitolata Bestiame, i quali, approfittando della lontananza di Rocco, rispettivamente figlio e marito, nei campi per la mietitura lavorando “senza un lamento, senza un desiderio, senza un’imprecazione, così, come un bue sotto l’aratro e quasi immemore d’ esser vivo”, intrattenevano rapporti sessuali :
In quel buio non scorse l’ombra del padre che traversava la stanza a piedi nudi, senza vesti, alenando e tremando di libidine, brancolando con le dita convulse per cercare la carne di Nora […].
Carne di femmina “dal ventre fecondo e dalle poppe gonfie di latte” che lo stesso Rocco, a causa del duro lavoro senza pietà ed a causa del sentore di quella malattia che lo condurrà, nell’indifferenza, precocemente alla tomba, non guardava ormai più e nemmeno più animalescamente “fiutava” ( vedi appendice A di questo volume).
Seppure in taluni casi, particolarmente influenzati dalle esperienze mondane a contatto con le realtà di quella Roma umbertina e snob di fine ottocento, scomparivano dalla narrazione i riferimenti di carattere popolare e gli elementi di chiara critica e disprezzo per offrire spazio a mescolamenti tra barbaro e prezioso, a quegli arborei interni nobili e borghesi, ricchi di giapponeserie e preziosi velluti, alle volte invidiabili e di sovrano buon gusto, altre volte indiscutibilmente cinici e di ridicolo spessore artistico e morale (Un albero in Russia, Mandarina, La farfalla e il fiore ecc.) o ad una non ancora sperimentata appieno idealità d’una società nuova ed eletta, fiabesca, voluttuosa e vagamente epica (La tiranna di Policoro) che troverà nell’Isaotta Guttadauro una delle più alte manifestazioni all’interno della produzione poetica dannunziana, la medesima tendenza espressa nella raccolta di cui abbiamo trattato precedentemente diede corpo e spirito alle novelle successive, pubblicate originariamente in diversi volumi autonomi e poi confluite, in parte, dopo un opportuno discernimento, all’interno della grande raccolta intitolata Le novelle della Pescara; morbide e languorose, più che oggettivamente pornografiche, o comunque costantemente cariche di quel fervore deumanizzante, come la torma di cenciosi e storpi mendicanti che nella novella Il traghettatore
[…] si mise a seguitare la passante, chiedendo l’elemosina, tendendo le mani. Uno era storpio e camminava a piccoli salti, come una scimmia ferita. Un altro si trascinava sul sedere puntellandosi con ambo le braccia, come fanno con le zampe le locuste, poiché aveva tutta la parte inferiore del corpo morta. Un altro aveva un gran gozzo paonazzo e rugoso che ad ogni passo ondeggiava come una giogaia. Un altro aveva un braccio ritorto come una grossa radice.
Un vasto campionario di ambienti sociali, con i loro diversi casi umani arricchendo di nuovi temi la novellistica dannunziana, “impegnata ora nell’indagine del mondo popolare […], ora nello scandaglio del comportamento borghese […], ora nello studio delle collettività contadine […], architettura minuziosa di date e talora di riferimenti precisi a fatti della contemporanea storia nazionale […] storicizzata con date alla mano. Si trattava, in realtà, di vaga verniciatura cronologica […]. Sicchè, a voler indicare una spia lessicale di questa indifferenza ai cambiamenti del tempo, l’imperfetto delle forme verbali già da sé indicava il senso di lunga durata in cui d’Annunzio fissava la vita, di fatto sempre uguale a se stessa, delle sue creature”; così come nelle novelle provenienti da Il libro delle vergini presentanti “quattro casi di verginità, reale o di ritorno, del corpo e dell’anima, ma tutti turbati, seppur in modi e in ambienti sociali diversi, dall’esperienza personale o dall’osservazione in altri della sensualità”, esperienza terribile e mortale come nel caso della maestra di paese d’Abruzzo, Giuliana, nella novella La vergine orsola, rinata al mondo dopo la guarigione e la convalescenza da una terribile malattia dai risvolti, per scelta dannunziana, cadaverizzanti e visivamente terribili, che la rese “quasi nuda di capelli”, con “la faccia d’un colore quasi ceruleo, ove le palpebre erano semichiuse sopra gli occhi vischiosi, le labbra nerastre e i denti incrostati”, i cui piedi apparivano come “gialli, squamosi, lividi nelle unghie, che al tatto davano un ribrezzo di membra morte” . Rinata al mondo non solo con un corpo rinnovato dai salutari, semplici e nutrienti alimenti preparati dalla sorella, ma anche insieme ad una visione del mondo mutata, risvegliata, a poco a poco compresa attraverso la gran sofferenza subìta, visione che la porterà a quei primi e mai sperimentati approcci denudati allo specchio, per pudore e paura d’un castigo sovrannaturale, all’uso del sole sul viso privato del solito scialle, agli sguardi strappati a quel giovane soldato, che nella caserma di fronte alla casa delle sorelle maestre prestava servizio; all’oppressione e non più alla consueta ed officiata partecipazione cultuale durante la messa della Domenica delle Palme, nel momento in cui, divisa dalla sorella e spinta dalla folla imponente,
restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quegli urti e quegli aliti. […] Ella si sentiva […] spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. […] in tutto quell’ammasso di cristiani e di cristiane, piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; […] ed ella sentiva in torno a sé così passare l’amore, poneva il suo corpo tra quei corpi che si cercavano […].
Tentativo di rinascita, quindi, alla vita ed alla Bellezza attraverso un atto di ribellione castrata da una situazione di fortissimo vincolo sociale, dove la scena della denudazione e dell’esplorazione corporale si denota quale immagine di un “fittizio scrollarsi di dosso” i legami di una tradizione che ne stringono le forze caratterizzanti un disoccultato pensiero di sé, un liberarsi dagli stimoli sessuali al di là delle abitudini comuni e generalmente condivise; vita pur anche di iniziale vanità per la tenue bellezza che Giuliana scopri sul suo corpo, e che la porterà indiscutibilmente alla fine, fisica e sociale, tra atroci tormenti per un tentativo d’aborto, operato dagli intrugli di una vecchia strega dall’idioma “molle di vocali” ed abitante in una stanzucola sulle cui pareti fioriva scaglioso e verdastro il salnitro, ripiena di rozzi idoli cristiani ed utensili dalle varie e strane fatture, in seguito sì alla violenza subita da un bruto straccione, Lindoro, ma a causa principalmente dell’impossibilità di redenzione alcuna per costoro che eletti non sono, e il cui tentativo di nobilitazione, più o meno inconscio, appare vano. Giuliana muore quindi per una violenza dietro la quale è nascosta l’incapacità sostanziale di strapparsi di dosso il provincialismo castrante delle abitudini abruzzesi di paese, ma estendibili ad una referenzialità più generale, di cui Lindoro, nel pieno profilarsi delle sue attitudini di popolano, rappresenta unicamente l’attivazione discriminante.
Masse di genti infettate dall’errore dell’idolatria e della bestialità esaltata si battono il petto, piangono all’apparire della reliquia in processione di San Pantaleone nella novella intitolata Gli idolatri, pronti a morire ed a combattere contro i fedeli d’un altro santo, fermi nell’utilizzare l’antagonismo tra fratelli di fede in motivo per rendere libero e terribile l’odio assassino contro gli abitanti di un paese vicino, al fine di ristabilire l’onore del proprio protettore celeste rispetto a quello dei loro vicini, e mostrando quanto effettivamente poco sia necessario perché la religione si converta in superstizio o in fanatismo radunandosi di fronte alla chiesa in preda al delirio idolatrico, trasportando con foga e violenza, e strappando dalla canonica, la statua patronale in direzione della chiesa avversaria armati “di ronche, di scuri, di zappe, di schioppi” al fine di conquistarla:
Tutti, accecati, in una furia belluina, gridavano: – A morte! A morte! […] Altri gruppi prendevano d’assalto le porte delle case, a colpi d’accetta. E, come le porte sgangherate e scheggiate cadevano, i Pantaleonidi saltavano nell’interno urlando, per uccidere. […] Ma da ogni parte cominciarono ad accorrere i difensori, I Mascalicesi forti e neri come mulatti, sanguinarii, che si battevano con lunghi coltelli a scatto, e tiravano al ventre e alla gola, accompagnando di voci gutturali il colpo. […] Sotto il cielo color di ruggine, il terreno si copriva di cadaveri. […] Il santo d’argento, impassibile e bianco, oscillava nel folto della mischia, ancòra sostenuto su le spalle dei quattro ercoli che sanguinavano tutti dalla testa ai piedi, non volendo cadere. […] I Radusani si precipitarono con un immenso urlo di vittoria, passando sui corpi degli uccisi, traendo il santo d’argento all’altare. […] I corpi avviluppati rotolavano su i mattoni, non si distaccavano più, balzavano insieme qua e là nei divincolamenti della rabbia […].
Allo stesso modo orripilante in cui L’Ummàlido della novella l’Eroe, mutando l’eroismo in cruento masochismo, si tronca da sé con un coltello la mano schiacciata dal peso del catafalco in processione di Sante Gunzelve, e la dona come offerta al santo di fronte a tutta l’assemblea dei fedeli in orazione :
E si mise a tagliare in torno al polso destro, pianamente, in cospetto del popolo che inorridiva. La mano informe si distaccava a poco a poco, tra il sangue. Penzolò un istante trattenuta dagli ultimi filamenti. Poi cadde nel bacino di rame che raccoglieva le elargizioni di pecunia, ai piedi del Patrono. L’Ummàlido allora sollevò il moncherino sanguinoso; e ripetè con voce chiara: – Sante Gunzelve, a te le offre. –
Le novelle, nate ad hoc sul tavolino dello sperimentatore, offrivano indiscutibilmente l’idea di quel profondo tradimento del naturalismo “non tanto negli esiti del risuscitato sentimentalismo delle novelle altoborghesi, quanto soprattutto là dove il naturalismo pareva esplicitamente mimato, una esuberante deformazione del reale” ; così che la novità portata in campo dalla raccolta intitolata San Pantaleone fu caratterizzata appunto dall’adattamento degli strumenti di questo dannunzianamente conscio tradimento “a una materia nuova e più varia […] attinente a un Abruzzo più articolato e storicamente più preciso”; ed io aggiungerei, a completamento di questa affermazione, rendendo le comparse apparecchiate dalla mano ormai furba, esperta e maliziosa del poeta, quasi orfane di parte di quel bagaglio esternamente e figurativamente animalesco che fino a poco prima era d’un peso assai elevato, ma irreversibilmente necessario al fine dell’identificazione ideologica dei singoli soggetti, evocando una terra d’Abruzzo non più legata a quell’unico parametro di misura identificato con l’istinto, ma in qualche modo “progredito alle varie articolazioni della vita collettiva, culturale e religiosa.”
I borghesi e i popolani, esaltati entrambi da un analogo distacco sprezzante ed in certi casi, come nella novella intitolata La morte del duca d’Ofena, mortalmente violento, “finivano per esemplificare solo due ricorrenti tipologie umane e per alimentare nelle novelle i doppi filoni corrispondenti del ridicolo o del deforme”, indegni di reggere la loro presenza al cospetto del superuomo-eroe, esasperando i toni di una bestiale brutalità massificante e materializzante, come la ribellione del popolo, in strage. I borghesi si ponevano al centro di una pettegola, piatta e sciatta vita sociale, pronti a sbranarsi reciprocamente e per il gusto cinico del disprezzo, abitando in case di gusto alquanto riprovevole; “elementari”, e con la caratterizzazione “bassa” del dialetto, erano invece a pieno titolo disegnati gli ambienti e i personaggi del popolo minuto, rendendo in questo modo inequivocabilmente i due ceti sociali destinati, senza speranza, né a dialogare né a risollevarsi a vicenda:
La moltitudine, in fatti, irrompeva su per l’ampia salita, urlando e scotendo nell’aria armi ed arnesi, con una tal furia concorde che non pareva un radunamento di singoli uomini ma la coerente massa d’una qualche cieca materia sospinta da una irresistibile forza. In pochi minuti fu sotto al palazzo, si allungò intorno come un gran serpente di molte spire, e chiuse in un denso cerchio tutto l’edifizio. […] Altri, in un gruppo compatto, sostenevano un’antenna, alla cui cima penzolava un cadavere umano. Minacciavano la morte coi gesti e con le voci. Tra le contumelie ripetevano un nome: – Cassàura! Cassàura! –
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