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Il volo dell’arcangelo

Il 13 agosto 1922 alle ore 23 circa, Gabriele D’Annunzio cadeva da una finestra del Vittoriale ( per la verità ancora Villa Cargnacco). Intorno a questo banale incidente molto si è scritto e molto si è argomentato, attribuendo ad esso conseguenze persino gravi. L’esagerazione, per tutto ciò che riguarda D’Annunzio, è tutt’altro che infrequente e fu sempre una condizione alimentata dallo stesso Poeta. Tuttavia questo è il solo caso eclatante in cui non solo egli osservò un rigoroso silenzio, ma lo impose con energia a tutti coloro che ne furono protagonisti, fossero pure secondari.

Cosa sia veramente successo e per quali motivi, lo scopriremo insieme appoggiandoci agli scritti, alle testimonianze e facendo un po’ di deduzione logica.

Per capire bene l’evento bisogna fare un passo indietro in quell’estate del 1922. I fascisti erano in gran fermento e le elezioni dell’anno precedente non erano andate bene per loro. Il paese viveva in uno stato confusionale dove disordini e scioperi erano all’ordine del giorno. Mussolini, ben lungi dal riscuotere quella popolarità che avrebbe permesso agli elettori di catalizzare verso di lui le preferenze, guardava da tempo a D’Annunzio, come un nume tutelare, uno sponsor – diremmo oggi – che si identificasse con l’idea fascista. Per questo motivo aveva soccorso l’Impresa di Fiume fornendo, con le pagine del Secolo d’Italia e l’apertura di sottoscrizioni, un aiuto sensibile.

L’intento di Mussolini, cui non difettava l’acume politico e la visione generale, era quindi quello di conquistare D’Annunzio alla causa fascista, proprio per ottenere i consensi, sfruttandone la grande popolarità.

E’ sotto questo profilo che va inquadrato il “discorso di Palazzo Marino”. Il 31 Luglio l’Alleanza del Lavoro proclamava un sciopero di vaste proporzioni in difesa degli operai, brutalizzati dai fascisti. Per tutta risposta quest’ultimi imponevano all’on. Facta, presidente del Consiglio, lo storico ultimatum: 48 ore di tempo per far cessare lo sciopero, altrimenti le camicie nere avrebbero disperso i dimostranti.

D’Annunzio in quei giorni soggiornava all’Hotel Cavour a Milano. Il capolugo lombardo era la base dei fascisti e punto dal quale sarebbe partito lo sciopero dei sindacati. In verità il Vate si era incontrato con Eleonora Duse, ma si teneva in contatto con Mussolini, del quale sostanzialmente diffidava, nel senso che non voleva mettersi completamente nelle sue mani, ma che non poteva nemmeno avversare, visto l’appoggio dato a Fiume.

Mussolini fu abilissimo ad incastrarlo, convincendolo ad arringare le camicie nere sotto Palazzo Marino, il 3 agosto. Ma in quanto a furbizia egli aveva di fronte un degno avversario e così D’Annunzio in una confusione che non fece capire ai più nemmeno una parola, rivolgendosi ai fascisti, ne risaltò una fantomatica bontà, che essendo inverosimile, testimoniò solo la distanza che prendeva da essi, pur non sconfessandoli.

Mussolini ci restò male. Aveva puntato molto su quel discorso e capì, in quel momento, che aiuti politici, dal Poeta, ne avrebbe avuti ben pochi. Il futuro Duce, però, non aveva abbndonato le sue mire per una scalata politica che da solo non avrebbe potuto davvero compiere.

Venne quindi organizzato un incontro molto strano. Il 15 agosto, in una villa toscana, si sarebbero incontrati D’Annunzio, Mussolini e Nitti per decidere di organizzare un progetto politico che avrebbe potuto consentire la nascita di un governo di largo respiro, capace di attirare la maggioranza dei consensi e di fronteggiare le sinistre.

Perché Nitti? L’ex presidente del Consiglio che D’annunzio e i fascisti avevano largamente sbeffeggiato a Fiume, attribuendogli il volgare nomignolo di “Cagoia”, rappresentava l’ala liberale e moderata e costituiva una garanzia per contenere la brutale esuberanza fascista. Il problema era coniugarlo con D’Annunzio, più che con Mussolini, quest’ultimo duttile fino al punto di sopportare l’odiato Cagoia, come compagno di avventura politica, pur di avere i consensi per andare vittorioso a Montecitorio.

Fatto si è che Nitti scrisse una lettera a D’Annunzio per invitarlo all’incontro e convincerlo a sostenere e partecipare al progetto poc’anzi descritto, fidando nella sua fama e capacità di trascinatore di folle. Per farlo si rifece al periodo napoletano ed alla amicizia comune di Edoardo Scarfoglio. L’idea colse il bersaglio e D’Annunzio, messo da parte l’astio fiumano, accettò di buon grado l’incontro.

Chi convinse Nitti a scrivere una lettera al Vate, che lo aveva coperto di insulti appena due anni prima e che doveva esserle pesata ben più di un macigno mentre la componeva? Ci sono due ipotesi a riguardo.

L’ex presidente nel Consiglio, nelle sue memorie dal titolo “Rivelazioni” pubblicate dopo la seconda guerra mondiale, afferma che l’idea fu suggerita da Mussolini e da questi convinto ad attuarla. Di diverso avviso è Tom Antongini il quale afferma che a prendere l’inziativa fu il Poeta. Tra l’altro in “D’Annunzio Ignorato” descrive la nascita del nomignolo “Cagoia”, che era il cognome vero di un pover’uomo triestino, pavido fino all’inverosimile; giunto al cospetto del Pretore per essere interrogato, affermò tentennante “ mi no penso ghe per paura”. La storiella diffusasi a Fiume, consentì ai legionari di tacciare per Cagoia chiunque non prendesse decisioni per paura delle ritorsioni altrui. E quando la folla si accalcò sotto il palazzo Comunale, per attendere la parola di D’Annunzio, iniziò a strillare il nome di Cagoia, diretto al Presidente Nitti, che non voleva prendere decisioni, passibili di ripercussioni verso gli alleati. Il Vate, che non aveva sentito mai quel soprannome, chiese al suo ufficiale d’ordinanza, chi fosse mai questo Cagoia e, conosciuta la storiella, si unì ai legionari strillando con loro il volgare epiteto.

Io credo alla prima ipotesi.
Intanto è generalmente diffuso, tra gli studiosi di D’Annunzio, che il contributo di Antongini sia di scarso valore per la sua poca attendibilità. Poi D’Annunzio non aveva più alcuna voglia di mettersi nell’agone politico. L’avventura di Fiume gli era bastata, proprio perché l’aveva vissuta come l’aveva impostata, cioè una impresa squisitamente epica, militare ( “la più bella impresa dopo la dipartita dei Mille…”), ma del contenuto politico – amministrativo ne aveva piene le tasche. Figurarsi se decideva di promuovere una sorta di triumvirato, lui che nella vita non aveva posto nessuno di sopra o al suo fianco. No. Il ritiro a Cargnacco era un’abdicazione senza riserve e lo dimostrerà continuamente, fino alla morte, rintuzzando qualsiasi proposta politica. Finirà male anche l’avventura sindacalista con Giulietti che, suo malgrado, lo impegnerà subito dopo e che ad Ugo Ojetti, il quale gli chiedeva di sopprimere o il letterato o il guerriero che erano in lui, farà rispondere:“ ucciderò il sindacalista!”. Dunque par logico affermare che fu Mussolini a convicere Nitti a scrivere a D’Annunzio e sorprendente fu che il Poeta rispose ed accettò.
Lo stesso Antongini e il banchiere Giorgio Schiff-Giorgini, per conto di D’Annunzio iniziarono le trattative per un accordo programmatico, fissando data e luogo, come si è detto. Quando tutto sembrava pronto e ci si apprestava ad organizzare lo storico incontro, ecco che giunse la notizia imprevedibile. La sera del 13 agosto, D’Annunzio, in pigiama e pantofole, era caduto dalla finestra della Sala della Musica, nella villa Cargnacco. Un incidente banale ed un salto di appena 7 metri. La notizia venne diffusa il giorno seguente, dando all’episodio una versione accidentale: Il Comandante, in ascolto della pianista Luisa Baccara ed avendo a fianco la di lei sorella Jolanda, aveva perso l’equilibrio mentre era appoggiato allo stipite della finestra ed era quindi precipitato a terra.
In quel momento in casa, oltre alle sorelle Baccara, c’erano Aldo Finzi “l’eroico ed ingrato compgano di Vienna”, pilota della Serenissima; diventerà sottosegretario agli Interni e figura di spicco nel Governo fascista e Leopoldo Barduzzi, l’avvocato che assistette D’Annunzio in tutti i suoi affari già dal periodo francese fino alla sua morte. Figure troppo importanti perché non fossero presenti quella sera al concerto che la Baccara dava loro per intrattenimento. Naturalmente era presente tutto il personale e tra esso Aelis Mazoyer, fedelissima cameriera di D’Annunzio, da poco richiamata sul Garda, perché era rimasta a Venezia, colà confinata per compiacere il contrasto che verso di lei nutriva Luisa Baccara. Ed era presente anche Anselmo Viti, ex legionario, che svolgeva funzioni di dattilografo. La prima cosa non convincente, che intuisce il lettore, è che D’Annunzio fosse in pigiama e pantofole. Realmente non verosimile per un uomo che aveva fatto dell’eleganza e della forma un cardine estetico non rinunciabile e quindi mai avrebbe presenziato una serata in pigiama. La Mazoyer, nei suoi diari, attacca Luisa Baccara, ritenendola responsabile dell’evento e di molte altre cose, ma per farlo mette in luce il conflittuale rapporto istaurato per costrizione. La Mazoyer non era solo una cameriera, ma anche un’amante, per giunta assai spregiudicata. Non aveva disdegnato di dividere il letto con le altre donne del poeta, sin dai tempi di Arcachon ed era controparte ideale per giochi sessuali che tanto piacevano a D’Annunzio. La sua funzione a Gardone era quella di regolare ed assoldare un ricambio femminile destinato alle esigenze carnali del Vate.
Ma la Mazoyer, che sa bene quel che sia successo in quella notte e potrebbe dire la sua, tace. Per la verità nel suo diario, riporta una confessione di Luisa Baccara a Doderet”…io ero una vipera quella sera ed ero decisa a tutto; tutti sentirono quello che mi disse il Comandante, erano nascosti dietro le tende…”
Tacciono pure Finzi e Barduzzi che sicuramente erano presenti nella Sala della Musica. Il solo Viti, ad Ugo Ojetti che accorre al Vittoriale per scrivere l’articolo sul Corriere della Sera, dice un’iperbole: “ dopo la caduta D’Annunzio rantolava, aveva la metà del viso nera e sangue e materia cerebrale gli colava dal naso”. Naturalmente si tratta di una scemenza. A parte la paradossale descrizione della ”materia cerebrale”, va segnalato che il traduttore francese, Andrè Doderet, giunto a Cargnacco il 5 settembre ( appena tre settimane dopo l’infortunio) non notò segni sul calvo cranio del Poeta, nè tracce di ferite o contusioni. Ed ancora negativa è l’osservazione del dott. Antonio Duse, medico di Salò, che ebbe in cura D’Annunzio durante “il coma e la commozione cerebrale”, come diagnosi presto diffuse.
Il solito Antongini che riporta un referto ancor più catastrofico ( …si era spaccato il cranio…) plaude, neanche a dirlo, alla fenomenale tempra del Comandante, capace di ristabilirsi a tempo di record. Però sull’accaduto dichiara di voler tacere, perché al tempo in cui scrive ( gli anni 50) erano ancora vivi molti protagonisti ed era ancora presto per svelare i misteri.
Naturalmente tacciono le due Baccara. Anzi Luisa fa di più. Dopo aver resistito ad ogni tentazione giornalistica e ad ogni lusinga di pubblicazione ( l’ultima intervista la darà- ultra ottontenne- a Giovanni Minoli per Mixer su Rai 2, decidendo di portarsi il segreto nella tomba), consegnerà al Vittoriale il carteggio con Gabriele, privo delle lettere scambiate nel periodo successivo, ovvero epurando tutte quelle che si riferivano all’episodio.

E da ultimo tace il protagonista, il quale sull’episodio osserverà sempre un silenzio ferreo e scaglierà i suoi strali contro coloro che non rispettano la consegna, fossero pure i figli. Infatti, saputa la notizia, accorono a Gardone, Mario e Renata. Non hanno in simpatia la Baccara ( Luisa) che regola l’afflusso di ospiti e decide o meno di consegnare i telegrammi e la posta che dall’esterno arriva al Comandante, sostitundone così la volontà. Probabilmente si rivolgono alla Mazoyer, per sapere cosa sia successo e quindi conoscono che Luisa è implicata nell’accaduto. Ne parlano col padre che ha una reazione rabbiosa, cacciandoli dal Vittoriale. Luisa Baccara diviene intoccabile. Ci vorranno circa 5 anni perché D’Annunzio riprenda i normali ed affettuosi rapporti con la Sirenetta.

Ma non è tutto. La Pubblica Sicurezza indende svolgere un’indagine sull’accaduto ed è ben strano, perché nessuno ha sporto denuncia e quindi non è chiaro a quale titolo possano essere fatti gli opportuni accertamenti. Eppure qualcuno vuole scoprire una verità. Ma chi? Di sicuro qualcuno che vuol rimanere nell’ombra.

Infatti viene invato a Gardone il funzionario Giuseppe Dosi per svolgere un’inchiesta segreta. Si presenta alla villa come esule cecoslovacco col nome di Karel Kradochvill; dichiara di essere stato un ufficiale al fronte italiano e parlando in italiano con forte accento tedesco chiede di restare per qualche tempo, volendo dipingere lo stupendo paesaggio del lago e le farfalle.

Naturalmente qualcuno deve essere stato avvertito del suo arrivo e della sua funzione. Non sarebbe stato possibile, al primo venuto, anche con un passato rispettabile da combattente, di istallarsi impunemente al Vittoriale. D’Annunzio faceva fare anticamera ai figli e ad alte personalità, alloggiandoli al Grand Hotel di Gardone; era costantemente assalito da ex legionari oltre che da amici e frequentatori del suo passato e ne era atterrito; figuriamoci se fosse stato tollerato un anonimo ufficiale ( nemico) per oltre un mese, in mezzo ai piedi, violando la prima consegna di quel luogo, cioè la pace e la tranquillità. Ma Dosi svolge il suo lavoro con arguzia e sagacia. Entra in confidenza col personale di servizio e persino con D’Annunzio ed alla fine di settembre viene scoperto. Il 4 ottobre consegna il suo rapporto.

La caduta del 13 agosto non è accidentale, ma di origine colposa, cioè non intenzionale. Come a dire provocata da qualcuno ma per sbaglio, non con la voglia di spingere il Vate di sotto. Almeno questo è quanto trapela da indiscrezioni. Il rapporto di Dosi non è ancora conosciuto. Intanto viene subito murata la finestra incriminata. Effettivamente il parapetto è basso. Alla villa ci si ostina a mantenere in vita la versione di una caduta accidentale. Ma chi provoca l’inchiesta Dosi? Sicuramente qualcuno che ha visto nell’evento la volontà di non far presiedere a D’Annunzio l’incontro con Nitti e Mussolini e quindi cerca la traccia di un complotto. La principale indiziata è Luisa Baccara o sua sorella Jolanda ovvero tutte e due insieme. Nasce l’ipotesi che Luisa Baccara ( che delle due sorelle ha maggiore personalità) sia la carceriera del Comandante; che sia una spia di Nitti o una fascista celata, ma anche che abbia lo scopo finale di uccidere D’Annunzio per toglierlo di mezzo, posto che sia diventato ingombrante per tutti.

Certo gli eventi portano molta acqua al mulino di queste ipotesi. Luisa è odiatissima e temuta. Quello che il Comandante non le ha espressamente concesso, lei se l’è preso senza troppe cerimonie ed è vero che un commando di ex legionari, stufo di vedere questa badessa contrapporsi a chiunque si affacci alla soglia del Vittoriale, minaccia di rapirla e forse di ucciderla. D’Annunzio, che pure ne ha le tasche piene e favorisce non solo le sue frequenti vacanze a Cortina, ma anzi cerca di prolungarle ( per avere finalmente mano libera in casa), è il suo più grande protettore. Come a dire che non sa ( o non può) dirle di no. Ostacola tutte le amanti che la Mazoyer recluta ed addirittura riuscirà ad allontanare Emy Heufler che il Vate richiamerà durante una delle vacanze della Baccara a Cortina, eppure quest’ultima resta al suo posto intoccabile.

L’ipotesi Dosi vine confermata dalla pubblicazione del Carteggio D’Annunzio – Baccara ( “il Befano alla Befana”edito da Garzanti nel 2003). Luisa ha soppresso tutte le lettere di quel periodo, ma in una, datata 1 settembre 1924, c’è qualcosa sfuggito al passato da coprire. Si parla di un “colpo di tirebouchon” di Jolanda che può essere la semplice chiave del mistero. Nell’epistolario ricorre con frequenza il ricordo del “Volo dell’Arcangelo” in coincidenza con data dell’accadimento ed è ricordato con mestizia, non scevra da un diffuso senso di colpa di lei. La Baccara nutriva un amore possessivo per D’Annunzio e ne era invasata. Ben difficilmente avrebbe potuto tramare contro di lui. Aveva ire personali ma sempre motivate da gelosia e D’Annunzio anteponeva al suo piacere tutto, anche il dolore di chi lo adorava. Quella sera era stato particolarmente cattivo denigrandola ed aveva preso a corteggiare Jolanda per sfregio a sua sorella, che guardava attonita una scena disgustosa. Sicuramente Jolanda deve averlo respinto per rispetto a Luisa e per vergogna della situazione; lui deve essersi fatto più audace ed è intervenuta quest’ultima a dar man forte alla minore; nel parapiglia che ne è derivato, il Vate ha perso l’equilibrio ed è caduto a causa dell’ultima spinta di Jojò, appunto il “colpo di tirebouchon”.

Ecco, verosimilmente, quel che leggeremo, un giorno (quando le autorità lo riveleranno) nel rapporto Dosi.

 Carlo Selmi

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