Benché la data di nascita del Superuomo dannunziano, normalmente riconosciuta come più attendibile, sia, come afferma il Salinari, coincidente con la venuta al mondo della prima puntata de Le vergini delle rocce, apparsa sul Convito (la rivista di Adolfo De Bosis) nel gennaio 1895, e con la divulgazione e speculazione epico-esteticista di Claudio Cantelmo, protagonista del romanzo e profeta dell’avvento d’un nuovo e rinnovatore Re di Roma frustrato dalla democrazia “massificata”, giunge a noi la certezza, attraverso una lettera dello stesso poeta, che “i germi di potenza e di predominio i quali si svilupperanno in Cantelmo” già manifestano la loro presenza e la loro azione tra i versi di alcune delle odi più cariche di sentimento superumano presenti nella seconda prova poetica dannunziana, Canto Novo. Dedicando questa prima parte a quel periodo della produzione letteraria che a lungo è stato quasi completamente escluso, dagli studiosi, dalle vicissitudini che videro assurgere la presenza del superuomo ad elemento fondamentale della poetica matura e “solare” di d’Annunzio, intendo offrire il mio contributo alla chiarificazione della reale situazione estetico-superumana calata proprio nell’ambito di tale frangente temporale e letterario dell’avventura dannunziana, in quei momenti di grande fermento, in Italia ma soprattutto nel contesto europeo, dove la figura del superuomo, o oltreuomo, veniva ad assumere una posizione di primo piano in molte speculazioni dell’intellettualità operante sugli assetti sociali di diverse realtà nazionali del Vecchio Continente.
Identificato fondamentalmente da tre caratteristiche peculiari, quali “energia” o “forza” (volontà di dominio), “esuberanza sensuale” (il libero disfrenarsi dei diritti della carne e della natura umana), “culto della bellezza” (linea discriminante degli uomini eletti dalla realtà umana fedele alla gleba), il superuomo assume, a seconda dei momenti della vita di Gabriele d’Annunzio e dei suoi impulsi intellettuali periodicamente tendenti maggiormente all’una od all’altra delle caratteristiche sopra presentate, forme e valenze differenti e, di conseguenza, inclinazioni mutevoli nei confronti delle realtà politico-sociali intorno a lui presenti; in particolare, la produzione che si estende dalla pubblicazione di Primo Vere e giunge fino all’apparizione sul mercato letterario del Giovanni Episcopo e dell’Innocente, reca con sé l’immagine di una evoluzione dall’esaltazione iniziale, prettamente legata alla ricerca di una euforia sensuale diffusa, ottimistica e vitalistica per eccellenza, ma ancora in parte non profondamente dotata di quel senso di necessario distacco dal resto del mondo abitato da “schiavi” (PrimoVere, Canto Novo nella prima edizione, ecc.):
Io tra le canne alte inseguìati e il cor batteami di desiderio; la febbre de’l senso pulsava ne l’arterie più calda de’l sole. E alfin ti giunsi !!… Con trepida ansia su le ninfee ti stesi, e un bacio co’l labbro convulso t’impressi, Ora sei mia !… – gridando – sei mia !…
Alla concentrazione profondamente oziosa e decadente delle attenzioni intellettuali e fisiche al culto del Bello (Il Piacere, Isaotta Guttadauro), ed alla ricerca, anche attraverso la matrice di una sensualità vissuta pur anche al di là dei limiti del pudore, della traslazione del Bello assoluto, ipostasicamente, nei gesti e nella presenza dei personaggi operanti nei romanzi (nonché dell’autore stesso nel mondo), viene indirizzata la tracciatura di una delimitata linea di demarcazione fra la componente superumana, catarticamente distaccatasi dalla realtà circostante “barbara” ed ignorante del vero, ed appunto quest’ultima; non per niente, la vita gli si presentava (a Gabriele d’Annunzio), assecondando la tendenza ad una spregiudicatezza etico-politica8 che ne caratterizzava la visione della società, come una struggle inevitabile e inesorabile, “da cui, finito ormai il ‘regno delle nullità’, sarebbero emersi solo i ‘violenti’, coloro che avevano capito che la via dell’arte è lunga e scabra ed erta, e che perciò occorreva farsi largo combattendo a furia di gomitate”.
Anche per quanto riguarda la visione della Nazione e del mito dell’Eroe ad essa collegato, riscontriamo, nella produzione e nella poetica dannunziana precedente all’avvento dell’influenza superumana, alquanto difficile identificare chiari riferimenti legati ad una sistematica trattazione dell’argomento in questione. Nella prima produzione, l’immagine della Nazione ideale, e della società ad essa connessa, si articola per lo più attraverso suggestioni derivanti dall’influenza carducciana e tardo-romantica, dove un ellenismo di scenografia, più che di sostanza, caratterizza ogni spazio, ogni relazione ed ogni fine, e dove la Natura e la Città estetizzate ed estetizzanti assumono di fatto le convenzioni locali, espandibili al tutto, dell’idealità nazionale per d’Annunzio ancora astratta, per lo meno fino alla comparsa de Il Piacere, vera prima opera di principiante respiro politico. Prima della comparsa di quell’articolo del 1888, intitolato L’Ultimo romanzo, il quale “suonò definitivamente le campane a morto all’estetica e alla prosa naturalistiche”, il marchio estremamente rigido dell’educazione scolastica carducciana, ed il lirismo individualistico così prepotente nella poetica del giovane d’Annunzio tutto “teso alla ricerca di una risonanza più ampia ma non volgare”, indirizzarono gli sforzi del poeta verso quell’esuberanza quantitativa, convenzionalmente atteggiata, identificante il vertice della letterarietà per eccellenza, dove il confronto tra la tradizione di un più nobile passato e d’un escatologicamente promettente presente, potessero offrire il suggello, “o il presupposto della dignità estetica” proposta, attraverso la quale lo stesso d’Annunzio intendeva proporsi con enfasi quale legittimo e più indicato continuatore ed erede dell’insegnamento carducciano, d’Orazio e d’Alceo, artefici eccellenti di forme immortali.
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