Archivio

Il Precursore: Le vergini delle rocce

Come per Il Trionfo della Morte, anche ne Le vergini delle rocce la ricerca superomistica di regressione poi rifiutata alle realtà tradizionali e protettive nei confronti delle situazioni civili contemporanee e, per antonomasia, democratiche, si rese fulcro fondamentale d’ogni considerazione iniziatica del profeta di turno dell’estetismo dannunziano: non più caratterizzata dal ritorno alla famiglia ed ai valori da essa professati ed incarnati, ma cavalcata catartica verso i luoghi dove le stirpi passate, di comprovato fervore aristocratico, fondarono le proprie dimore oramai cadute nella rovina dell’oblìo statuale. In un universo desertico e rinnovatore, ricolmo d’emblemi e di stemmi, “immobilizzato al ruolo di involucro fenomenico delle nuove ascensionali mitologie superumane”40, profetiche e messianiche, il 1895 vide la nascita del precursore pseudo-nicciano Claudio Cantelmo, impegnato nella costante rimozione e rifiuto della vita comune e dei suoi concreti problemi in virtù dell’abbandono quasi mistico ed estatico al rito dell’Ideale di rinnovamento delle stirpi latine e delle sue antiche dominazioni. Profeta militante di Bellezza, “unica alternativa alla marea montante della barbarie democratica”, l’“Ideal tipo latino” Cantelmo si presenta come colui che, privo di qualsiasi determinazione fisiognomica e psicologica, al di la della voce assoluta e totalizzante del suo ego, afferrava, disfaceva e purificava, quasi sofisticamente, ogni minima realtà conoscitiva, piegandola positivamente o negativamente all’itinerario d’un viaggio simbolico d’un superomistico rinnovamento tutto dannunziano, ricercandone quella necessaria integrità e coerenza nell’ambito filosofico-politico al fine di poter testimoniare, coerentemente, quella determinata scelta radicale enfatizzante del senso violento dell’autoritarismo antidemocratico e dell’“isolamento schifiltoso” rigettante i “miasmi” di quella terza Roma disconosciuta. Già inconsciamente reietto, come afferma il Borghese, ma soprattutto osservatore indignato della caduta imminente di Roma, nonché “testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro” per la latinità, egli decide di portare, fascinato dal passato della propria genealogia familiare segnata dal sangue delle stragi e dall’Arte, quel suo desiderio di generazione d’un nuovo dominatore e Re di Roma, concepito con l’ausilio strumentale di una donna portatrice del senso di quell’augusto passato imperiale, lontano dalla città così mutata dal “rigurgito di cloache” che, come “l’onda delle basse cupidigie, invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto”; essendo il mondo null’altro che la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, che sentono innate le istintive virtù della stirpe, Cantelmo giungeva persino ad evocare lo spettro atroce, e testimone di caducità del tutto, della morte e dell’auto-annullamento conseguente, indugiandovi e rintracciandovi, dall’alto della sua esperienza profetica, l’incentivo ad un sensuale edonismo, in realtà obliante d’ogni paura profondamente temuta pur anche dalla virtù della natura superumana.
Curiosamente, in mezzo alle molteplici affermazioni negativizzanti delle realtà popolari e cittadine che spadroneggiano indisturbate durante la progressione testuale, riconosciamo i primi frammenti di quella divisione estetico-ideologica tra coloro che, inglobati nelle manifestazioni di degradazione pubblica e nazionale, si abbandonano assuefatti all’“imbastardimento” dei costumi ed allo scimmiottamento di quelle categorie sociali elevate, e coloro che, vivendo alla luce di quelle stirpi genuine e dimentiche d’un Italia vivente nel mito dei trascorsi regali e nobiliari, nobilitano la propria origine attraverso quell’influsso purificatore o dell’Idea, o della sacralità inviolabile del dominatore; saranno così terribili le invettive di Cantelmo nei confronti delle prime genti, e le immagini formulate ad hoc, al fine di demonizzarle, riporteranno nuovamente l’attenzione del lettore alle più squallide visioni del contado abruzzese, caricate però ulteriormente dalla pesantezza d’una nuova evocazione immaginifica ed ideale, non ancora fino ad adesso ben mostrata, come la materializzazione del concetto di “folla” ereditato dall’esperienza filosofica nicciana, e modulato a proprio piacimento. Non più, quindi, semplicemente “popolo”, sottoposto alle più svariate modificazioni a seconda dell’umore intellettuale del d’Annunzio, ma folla, e cioè, dannunzianamente, quell’insieme di molteplici realtà sociali unificate alla volta della mutazione e del sovvertimento d’ogni ordine sociale caratterizzato dalla naturale predominanza del più forte, di colui che detiene la potenza del predominio sulle genti in virtù della qualità della sua stirpe e dell’intelletto votato al culto della Bellezza, metro di tutte le realtà. Accalcate e bestialmente urlanti saranno le genti sull’Acropoli quirina, esaltate nella ricorrenza settembrina della conquista di Roma, così come, nell’esortazione indirizzata ai poeti a favore del compito dell’eterna difesa della Bellezza, i parlamentari del Regno verranno dipinti alla stregua di stallieri intenti a governare la “Gran Bestia” (elettiva), vociferanti, alla volta dell’elevazione e dell’emancipazione sociale delle classi meno elette, al pari del villano che “manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi”; e ricordando ai poeti, che l’anima della Folla è costantemente in balìa del Pànico, e che la sua natura è intrinsecamente indisgiungibile dalla schiavitù che la pervade, fa risorgere dall’animo degli antichi conquistatori l’idea che alla distruzione protrattasi dall’azione delle plebi sia necessario e “bello” rispondere opponendole altrettanta impietosa distruzione.
La frequentazione della folla rende sterili e infecondi sia nel fisico, sia nell’intelletto; e insieme ai suoi miasmi, ecco che sulla vita cittadina si espande, nell’immagine dannunziana, una nuvola gigante di polvere proveniente dai cantieri infiniti, le cui opere brutali e deturpanti, le cui pozzanghere di calce insieme ai cumuli di mattoni, dovevano occupare i luoghi “per tanta età sacri alla Bellezza e al Sogno” propri degli antichi e splendidi volti imperiali e rinascimentali. Oltre a ciò, “[…] una specie di follia del lucro, come un turbine maligno, afferrando non soltanto gli uomini servili, i familiari della calce e del mattone, ma ben anche i più schivi eredi dei maiorascati papali, che avevano fin allora guardato con dispregio gli intrusi dalle finestre dei palazzi di travertino incrollabili sotto la crosta dei secoli […] esposte ai rischi della Borsa”, si apprestava a livellare tutte le sacre differenze tra le genti al medesimo livello di mediocrità puntellata sull’anti-estetico sogno economico. Una specie di “immenso tumore biancastro” stava sorgendo con rapidità “chimerica” su tutti i luoghi dove un tempo la Bellezza era sovrana, tanto da far intervenire, in un suo raro discorso parlamentare, il d’Annunzio senatore, ammettendo che:

Il viaggiatore in Italia non nota forse a ogni passo i segni dell’incuria e della distruzione? Chi non ha contemplato con ira e dolore i resti di capolavori distrutti dai danni del tempo e dei moderni barbari? Chi non ha visto sublimi monumenti di bellezza, attorno ai quali un popolo civile dovrebbe promuovere un culto perpetuo, cadere in rovina per incuria? È assai più facile ottenere dal Governo una commenda per un ladro che un piccolo sussidio per una cupola che minaccia di cadere.49

Il piccone, la cazzuola e la “malafede” si ponevano quindi come nuove armi di questo mostruoso “moloch-progresso”, in quell’Italia che sarebbe dovuta essere il fulcro dell’innovazione del XX° secolo e la continuatrice della missione civilizzatrice greca, romana e rinascimentale, soppiantando l’acciaio brandito dalla potenza delle braccia elette alla strage dei “virgulti insani”. Una città, in poche parole, dalla quale fuggire, al pari di Claudio Cantelmo, al fine di non soccombere al maligno effluvio della “corruttela popolar-borghese”, anche se, paradossalmente, sarà proprio alle forze borghesi conservatrici, opportunamente educate, che Gabriele d’Annunzio guarderà con occhi di benevola speranza per il rinnovamento futuro.
Ma se la prima parte del popolo ineletto veniva siffatto trattata dall’oratoria dannunziana, la nobiltà e persino lo stesso Re d’Italia venivano malinconicamente mostrati, non senza un’oncia di scherno, sotto il giudizio inesorabilmente negativo come primi dimissionari dei loro antichi privilegi di ceto. Claudio Cantelmo, affascinato ed allo stesso tempo critico ferale dell’avventura napoleonica, padrone quasi assoluto di sé dall’influenza d’ogni potestà familiare, avvertiva “accrescersi e determinarsi” il suo “essere nei suoi caratteri proprii, nelle sue particolarità distinte, di giorno in giorno, sotto l’assiduo sforzo del meditare, dell’affermare e dell’escludere”; ma infervorato dalla diffusione in sé del progetto dannunzianamente superumano recato dal messaggio del “demònico” pseudo-socratico del conosci te stesso, che lo spingeva verso la potenza misteriosamente significativa dello Stile come caratteristica tendente alla particolarizzazione nel confronto con tutto il resto esterno rispetto all’unicità della sua persona, non poteva in alcun modo tollerare le gravi forme di passività istituzionale con le quali le antiche classi di nobiltà si presentavano nei confronti dei loro rispettivi passati, disegnando il Sovrano come esempio di mirabile pazienza nell’attenzione al trattare gli affari “umili e stucchevoli” da scribacchino impostigli “per decreto fatto dalla plebe”, e portando con intenti esortativi l’esempio del Pontefice romano il quale, seppur sovrano di un esiguo territorio al di là del Tevere, si poneva in quel luogo come “un’anima senile ma ferma nella consapevolezza de’ suoi scopi”, ultimo e pur sempre massimo simbolo delle aristocrazie passate:

E i patrizii, spogliati d’autorità in nome dell’uguaglianza, considerati come ombre d’un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano : – Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell’Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all’aura popolare […] diventar soci dei banchieri ebrei […] riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?

Immagini di spossatezza fisica e morale, “ombre della malattia e della morte” in preda alla follia che come un tarlo allunga i propri cunicoli nelle menti assuefatte, ma mai veramente accondiscendenti, come il principe Luzio, alle situazioni di tedio quotidiano ed all’aura di disfacimento che aleggiava sulla dimora di Rebursa, sui suoi abitanti e sopra al giardino abbandonato. La figura della principessa demente Aldoina diviene perciò quell’icona di ciò che non solo nel mondo borbonico, ma aristocratico tutto, mantiene le proprie membra in putrefazione all’ombra delle virtù nobiliari; una visione dalla quale necessariamente, ma inutilmente, scostarsi, come i suoi stessi figli:

A traverso l’apertura dello sportello […] io vidi allora il volto della principessa demente: irriconoscibile, contraffatto da un gonfiore esangue, simile a una maschera di neve, con i capelli rialzati su la fronte in guisa d’un diadema. Gli occhi larghi e neri splendevano su la bianchezza opaca della pelle, sotto l’arco imperioso delle sopracciglia, mantenuti forse nel loro splendore straordinario dalla visione continua d’un fasto inaudito. La carne del mento s’increspava su i monili ond’era cinto il collo. E quella enormità pallida e inerte mi risuscitò nell’imaginazione non so qual figura sognata di vecchia imperatrice bisantina, […] pingue e ambigua come un eunuco, distesa in fondo alla sua lettiga d’oro.

E contro la stanchezza delle fibre, un tempo forti e consce del proprio ruolo dominante, Cantelmo risponde non con gesti, seppur piccoli, di malinconica e comprensiva affettuosità, ma con l’odio violento della sua forza e sanità che egli avvertiva “insorgere […] contro la tristezza, contro il mortale tedio in cui la portentosa creatura si disfaceva senza scampo”, essendo del tutto irrilevante per lui il veder ritornare sul trono d’Italia, ed alla sue piene funzione di “despoto”, o un uomo sabaudo oppure un napoletano, in quanto entrambi gravati dal peso delle colpe verso le dinastie guerriere alle quali appartenevano. Il Re di Roma non sarà mai incarnato da queste figure di “vecchiezza precoce”, così come dalle realtà regali europee indaffarate a compiere la propria parte voluta dall’amministrazione pubblica; il Re di Roma nascerà come termine ideale dell’addizione tra tutte le passate “stirpi cantelmiane”, tra tutti i sangui che infervorarono il mondo attraverso la forza e l’intelletto, benedetti in eterno per “le belle ferite che apersero, per i belli incendii che suscitarono, per le belle tazze che votarono, per le belle vesti che vestirono, per i bei palafreni che blandirono, per le belle femmine che godettero, per tutte le loro stragi, le loro ebrezze, le loro magnificenze e le loro lussurie”58. Il culto della Bellezza cadrà profeticamente sotto il peso dell’urto della Folla sfrenata, ma quando tutto sarà profanato, quando la vita apparirà decaduta ad un livello difficile da superare, si genererà dalla Folla stessa l’angoscia, il Pànico per la desolazione che attorno a lei si verrà a creare; non vedendo altra via o altra luce di fronte a sé, le genti insorte avvertiranno con paura la necessità dell’avvento di quelle “verghe ferree” proprie degli eroi, dei testimoni più genuini della tradizione latina, che torneranno al fine di disciplinare nuovamente le masse stordite. Un volta immolati al demònico, e gettati nelle fondamenta della Terza Roma, quegli uomini chiamati “liberatori”, che con fare ambizioso ed ambiguo agivano al fine dell’emancipazione degli ambiti sociali più minuti, giungerà la manifestazione del Re nuovo che sostituirà l’“inutile speranza” con il “proposito energico”, rispondendo, alle provocazioni distruttive degli “stallieri” e della “Gran Bestia”, con la distruzione della concimazione delle terre col sangue e con le carni abbattute. Essendo il mondo una costruzione, una realtà edificata e largita dai pochi ai molti, Egli giungerà non per confermare i diritti d’uguaglianza acquisiti dal popolo, ma per invertirli, gettando verso il futuro quel ponte ideale sul quale tutte le stirpi sovrane potranno valicare l’abisso ed intraprendere il viaggio dell’eterna dominazione sul mondo, così al fine di generare, sull’esempio di sé, quello Stato proiettato verso l’elevazione costante e progressiva delle classi privilegiate ad una condizione di esistenza ideale. Dunque, come afferma Arrigo Solmi: “in questo disegno di una Italia potente, ricondotta sulla via della grandezza di Roma, non vi è soltanto un principio estetico, […] ma una fede istintiva nelle virtù della stirpe […]. Diversi fattori confluivano a creare nel Poeta questa coscienza nazionale […]: l’eredità del patriottismo del Risorgimento, l’irredentismo carducciano, la figura delle sane energie del popolo rivelate nel lavoro […].”
Rinati alla Vita ed al culto eroico d’un tempo trascorso, saranno invece coloro che vivono a contatto con l’alto Ideale dell’Arte, con le figure d’antica aristocrazia non rassegnata all’abbandono di sé, con la guerra rigenerante; di costoro, d’Annunzio-Cantelmo traccia descrizioni volutamente esaltanti e vicini a quegli ideali di unicità e particolarizzazione proprie dell’uomo iniziato ai misteri “demoniaci” auto-conoscitivi, ma non dimentiche dell’utilizzo novellistico di categorizzazioni animali, come il contadino di Rebursa che appare come “un magnifico esemplare della sua specie, degno abitatore di quella roggia terra sparsa di pietre focaie, superstite dell’antica razza di Deucalione”, o come quei giovani delle bande garibaldine che, in virtù del contatto con la meraviglia desertica e simbolica dell’Agro romano, si trasfigurarono perdendo quei tratti di rozzezza ed acquistando l’aspetto di combattenti sacri “a una gesta che gli pareva novissima”, divenendo vergini eroi “del tempo d’Ajace” e rinnovando in sé quel tipo “delle antiche idealità guerriere”.

le vergini delle rocce
gabrieledannunzio.it logo black
è un progetto Performarsi Digital S.r.l. | Via Garibaldi, 10 - 36035 - Schio (Vi) | P.Iva 03820210247
gabriele d'annunzio firma