Dopo l’esperienza artisticamente e politicamente totalizzante dell’esaltazione del Superuomo a modello universale e “diversamente” istituzionale, lo scoppio del primo grande conflitto mondiale si palesò per d’Annunzio quale momento di irrinunciabile riproposizione di sé e dei propri miti, convinto della inesistenza sostanziale di spiriti eletti in Italia, in seguito ad un quinquennale dormiveglia letterario che lo portò all’accantonamento parziale della scrittura “del fuoco”, tentando nell’operazione rinnovata di imporre la Bellezza e di reimporsi attraverso di Essa ad un pubblico più vasto. Esaltando Macallè “per la bellezza di quei mille combattenti”, e trasfigurando Adua come “opera di fantasia e di invenzione”, a ridosso del biennio -, venne alla luce la raccolta intitolata Canzoni delle Gesta d’oltremare, canto di esaltazione dell’impresa italiana in terra libica da alcuni definito come “fanfara nazionalista e bellicista” di un nuovo senso dell’imperialismo nascente nello spirito della gestione dell’immagine italiana a livello internazionale. Pensate immediatamente come quarto volume delle Laudi, le Canzoni, o Merope, vennero ispirate da una rinascente euforia del “ritorno al cantare” dell’idealità civile della riscossa latina, nella piena e compartecipe esaltazione liturgica degli eroi e delle loro imprese connaturati ad uno sperimentale senso della “necessaria” estetica funebre dell’agire glorioso; facendo leva sugli avvenimenti di cronaca bellica ad esse contemporanee, i versi si concentrarono sulla nobilitazione della “piattezza impoetica dell’attualità contingente” esaltata nell’azione, in confronto a tutte quelle realtà istituzionali che, rendendo il poeta “esule” poiché sostanzialmente incompreso, non avevano fatto propria, o addirittura rifiutato, la necessità “divina” delle sue affermazioni ideologiche. Egli, curato dalla gioia dell’azione rigeneratrice, convinto che “la forma specifica della campagna interventista” fosse “costituita dall’evocazione della folla con la sua dinamizzazione emotiva grazie alla teatralizzazione della politica”, e speranzoso di trovare in Italia un clima diverso dalla bambagia rassicurante e neutra della condizione romana “slombata” che tanto lo aveva sconfitto, era pronto al ritorno in patria pervaso da un’insostenibile ansia di agire nella sublimazione, estetica e sentimentale, “di una visione poetica ed eroica del divenire”:
Guerra! È il croscio dell’Aquila che vola.
Guerra! Una gente balza dalla morte,
s’arma, s’assolve nell’eucaristia
del mare, e salpa verso la sua sorte.
In questa situazione, i Canti della guerra latina venne al mondo quale prodotto prettamente celebrativo di tutto quel pàntheon eroico più o meno riconosciuto ed esaltato dalla storiografia ufficiale, attraverso il quale Gabriele d’Annunzio poté continuare ad optare non solo verso l’auto-esaltazione nella figura di portavoce più autorevole della tradizione bellica ed unitaria, italiana e “latina”, ma soprattutto, attraverso la “falsa” commozione impressa nei Salmi e nelle Preghiere, manifestarsi quale protagonista nel sacrificio comunitario, eroicizzandosi in “maschia speranza alata”, ed offrendo la più preziosa delle armi a disposizione dei combattenti e della propaganda interventista: la sua voce, la sua parola (che non è più formulata semplicemente per l’espressione di significati ma per una determinazione di effetti), veicolo di traduzione in lingua umana dei voleri più alti della realtà divina della Patria genitrice di un “nuovo Rinascimento”, ottenuto nello strepito della “violenza della guerra e nel giubilo della vittoria”. L’estetica della bruttezza e della bestialità subisce, in queste due prime raccolte, un cambiamento oggettivo. Non più il popolo si palesa quale portatore di fusioni immaginifiche con le realtà naturali, ma elevandosi contrariamente ad uno stadio, attraverso la passione indotta dalla guerra e dalla resistenza, di nuova trasfigurazione nel volto della Patria e, quindi, nella manifestazione più diretta della bellezza più auspicabile; l’oggetto della critica estetica dannunziana si pone di conseguenza su qualche cosa d’altro, spostandosi sul nemico della nazione e su una trasposizione strumentale, in chiave storica, dell’immagine più emblematica dell’avversario incarnato nelle figure inimicali proprie di una più vasta storia europea. Manipolato dalla lucida bellicità di d’Annunzio, il nemico (esterno ed interno) si tinge di obesità e di rapacità, di “ruminanza bavosa” e menzognera e di bramosia sessuale, di spietato desiderio stragistico e di tortura, insomma di tutto il peggior apparire possibile, la cui soppressione si pone non come omicidio, ma bensì come legittima difesa della matrice epica dei popoli storicamente dominatori. Contro a queste figure, gli eroi sono i martiri testimoni della presenza esaltante della bellezza attiva della resistenza, immagini della beltà opportuna nella piena compartecipazione dei moti popolari difensori, colorandosi della tinta del sangue, cospargendosi di esso nell’ora della battaglia trasfigurante, così come i morti che “vanno più presto dei vivi” nella testimonianza della fede nella Patria: “Augusto Piersanti di Roma volle morire per coprire del suo corpo e del suo amore la sua terra, qualche palmo più in là. […] È più potente del metallo imperiale. È vivo. È un romano vivo. […] Lo zoccolo del suo cavallo scalpita le lastre romane. Il collo del suo cavallo, dalla criniera ingemmata del sangue di Paradiso, si tende verso le colonne romane, laggiù, a Spalato, nel palazzo dell’Imperatore.”
In questi termini, non sarà difficile per il d’Annunzio dei discorsi trasferire sugli austriaci e sui parlamentari italiani tutta la demonizzazione di una rappresentazione manipolata e poeticamente intesa per fini politici.
L’oratoria, di cui già in un recente passato il poeta aveva fatto esperienza per fini di carattere elettorale, annunziando la necessità di “sostenere militarmente da parte degli intellettuali la causa dell’Intelligenza contro i Barbari”, mettendo fine al dissidio “che dura tra il pensiero e l’azione”, divenne cardine quotidiano, fondamentale e non solo letterario del nuovo atteggiamento dannunziano nei confronti delle masse, momento nel quale, “a riscatto della parentesi paralizzante dell’esilio (in Francia) e in ideale continuità con il mito superumano della parola-azione”, egli progettò la possibilità di una rinnovata veste socio-politica, letteralmente auto-investendosi ed innalzandosi, sulla base delle sua passata autorevolezza letteraria ed ideologica oramai completamente conosciuta in Italia ed in Europa, al rango privilegiato di vero e proprio cantore, “esclusivo detentore di un’arte prodigiosa capace di trasfigurare in magia aristocratica anche i risvolti più inquietanti e squallidi del vivere”; interprete, quindi, e guida delle necessità epiche nazionali, fortemente instradate sulla via non solo di una “doverosa” riconquista, da parte delle realtà latine, del grado di dominio ad esse storicamente dovuto, ma anche di una lotta alla proletarizzazione massificatrice che costantemente offriva adito, accrescendosi, ad una preoccupazione sempre maggiore sia da parte di quelle classi sociali storicamente destinate al controllo degli assetti comunitari, e sia dal lato strettamente estetico, essendo la fortuna d’Italia “inseparabile dalle sorti della Bellezza, cui ella è madre”.
Il progetto politico ed interventista dannunziano si era già quindi esplicitato nella visione di un’Adriatico punto di congiunzione, in Serbia, “tra l’Italia e la Slavia”, interamente unificato sotto la supremazia italiana in virtù della tradizione di sposalizio veneto, e di una doverosità addirittura religiosa, stando a ciò che d’Annunzio scrive nella lettera “aux Dalmates” : “La Dalmatie n’est donc pas seulement une terre latine chère à l’esprit latin. Pour tout Italien pur, elle est un sentiment religieux.”
Se, ciò che afferma Gioacchino Lanza Tommasi è vero, e cioè che per l’egocentrismo di d’Annunzio il popolo era considerato solamente “sotto la veste di serbatoio di personale domestico e militare […] per la maggior comodità degli eletti”, e quindi al pari di bestiame da forza e da macello, è innegabile che la carneficina del conflitto, “auspicata e poi vissuta come lo scenario esaltante di una clamorosa avventura personale […] subito propagandata come esempio eroico di olocausto alla giusta causa della Nazione armata”, fu vissuta dal poeta-soldato in quel solo modo che, probabilmente, più di ogni altro gli era congeniale, anche in virtù dei suoi trascorsi ideologico-letterari costantemente ripresi ed adattati. L’attività bellica del poeta si caratterizzò quindi, su base di elettrèa memoria, da un rapporto inscindibile tra il privilegio della parola e dell’azione creatrice da essa derivata, e quell’“ordine nuovo” auspicato sulla base dei ritmi dell’“ordine lirico”, ordine derivato e definito da un tentativo di colloquio tra la massa ed il capo, tra l’assemblea ed il sacerdote “civile”, relativamente alla così sempre presente mitologia della “vita bella”; ed in virtù di ciò, la visione della battaglia muta le proprie coordinate e prospettive configurando azioni quali la strage, lo stupro e la ferocia giovanilistica, in elementi costitutivi dell’azione bellica, finalizzata ad una proiezione idealizzata del sé in un ambito di incitamento liberatorio degli istinti sanguigni e funebri. Le orazioni civico-liturgiche, i raduni di piazza e le letture pubbliche degli scritti dannunziani, le ostensioni di oggetti sacri per la Storia Patria, i balconi da cui la phonè declamatoria, immersa in quella guerre des balcons come ebbe a dire Robert de Montesquiou, trasgressiva di una ribellione anti-istituzionale invitava la folla alla presa di coscienza di sé nella fusione catartica con l’esaltazione del proprio passato e del “necessario” futuro in virtù di un sublime presente da ottenere tramite la guerra fisica ed intellettuale; gli assalti di squadra, le operazioni di bombardamento ferreo e propagandistico con l’ausilio dei velivoli, le imprese di “beffa”, tutto diveniva sprazzo di “attivismo rigenerante” orientato ambiziosamente alla conquista quotidiana di sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo irrinunciabile nell’“ordine della Bellezza”, poiché non appena un popolo “crede, la sua storia diviene feconda, spiritualmente elevata, sublime”; non dimentichiamoci, d’altronde, come lo stesso Marinetti ci colorerà la figura del d’Annunzio-voce durante una delle sue apparizioni:
[…] Mi appariva da lontano sul palco, elegantemente stretto in un abito nero, delicato, piccolo e fragile, sul vasto mare della folla. Aveva a momenti il gesto di un rematore che un poco si abbandona ai suoi remi, e le morbide cadenze della sua voce tiravano a lui dolcemente le pesanti zattere delle anime, su un fiume di immagini scintillanti […] il prodigio della parola che solleva le masse parve compiersi, agli occhi del poeta, poiché dei violenti bravo punteggiarono il suo discorso, facendo a pezzi le volute dello stile.
Nei termini suestesi, l’impresa di Fiume divenne simbolo inequivocabile di lotta ad oltranza non per il semplice ottenimento di una vittoria militare e politica, ma come fine ultimo di manifestazione (in questo caso ideologicamente “mutilata, prosopopea dell’eroe deluso ma non piegato e del vate senza corona”) del modello completo di ipostasizzazione tra la natura della Bellezza indiscutibile e l’attività umana volta al conseguimento della piena compartecipazione, della piena consustanzialità con Essa, attraverso l’ausilio, in questo frangente, delle armi, della bellezza del fuoco, del ferro, della partecipazione in prima persona ad imprese eroiche, tali proprio poiché volte all’eroicità per eccellenza, cioè l’edificazione dolorosa e sudata della Bellezza dello Stato e delle Istituzioni contro il vecchio mondo politico, parte di quell’“immondizia irremovibile” che a Versailles ed a Londra si spartiranno le sorti d’Europa dopo il collasso degli imperi centrali. Non per nulla, Ledeen afferma: “ciò che fa della Fiume dannunziana una parte del nostro mondo più che un episodio di curiosità storica è precisamente questo stile, questa organizzazione , melodrammatica e poetica , della folla che diviene ‘strumento’ dell’abilità retorica di D’Annunzio. Il potere del comandante era tale che egli poté guidare le masse fiumane attraverso i contorcimenti dei propri ondeggiamenti politici senza perderne l’appoggio. La potenza dei rituali e dei simboli da lui utilizzati per la sua arte politica era tale che egli poté trascinare la passione del popolo ad appoggiare, di volta in volta, l’annessione di Fiume all’Italia, un’alleanza tra una Fiume indipendente e altri popoli ‘oppressi’, e la creazione di una Reggenza fiumana indipendente”; la forza del discorso dannunziano sta comunque proprio nella sproporzione volontaria delle immagini, avvicinando ed accumunando, per esempio, la sorte ed i patimenti fiumani agli eccidi compiuti dalle truppe britanniche nelle colonie. L’impresa fiumana corona così la fruttificazione più naturale dello stile dannunziano, scoprendo le carte in tavola relativamente alle grandi possibilità effettive della finzione letteraria intrapresa per scopi politici, dando origine alla tendenza oratoria, ad un diverso modo ma con echi antichi, di rapportarsi alla folla insistendo sulla necessità della loro fede in lui e nella sua “veggenza salvifica”, facendo forza indiscutibilmente sulla reputazione formatasi durante le imprese belliche, e colmando la distanza coscienziosa tra masse ed intellettuali nell’ausilio di quella sua proverbiale spavalderia ben distante dalla pur semplice e sterile retorica.
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