Così Gozzano si rivolgeva alla fantomatica Cocotte la cattiva signora che conobbe in un mattino nell’infanzia prima e che gli diete furtivamente un bacio e gli donò un confetto…
Prevale nella poetica Gozzaniana l’incapacità concepire l’amore, in una società borghese intesa alla moneta, rude, grezza e concreta l’unica Via di Salvezza è rappresentata dal rifugio e la contemplazione del passato. Un passato ancora romantico, spensierato, dolce come i canti del Prati che le due collegiali in "L’amica di nonna speranza" leggevano furtivamente sognando di fronte al lago il Principe Azzurro.
In Gozzano è presente la sfiducia nei confronti dell’uomo contemporaneo troppo preso dai commerci turbinosi, dall’affare, dalla conquista “…quei cosi con due gambe che fanno tanta pena”.
Il crepuscolarismo non è un movimento di denuncia, Gozzano rassegnato accetta ma nel contempo soffre una pena muta ed il desiderio di esilio nei confronti di un mondo troppo superficiale. Preferisce starsene in cucina fra le stoviglie, in una Villa Solitaria del Canavese, oppure solo in disparte dalla moltitudine e “dalla vita delle mille offerte”.
” Seduto dal margine di un fosso, sorrido e guardo passare gli altri, e mi fan pena tutti, contenti e non contenti, in carnevali o in lutti, tutti purché viventi”
Gozzano non crede in un Dio, è scettico nei confronti del destino della società, l’unico conforto lo riesce a trovare nel passato nella poesia e nelle cose buone di pessimo gusto del salotto della nonna Speranza…
Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? l’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!…Lotte brutali d’appetiti avversi
dove l’anima putre e non s’appaga…
Chiedi al responso dell’antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l’indaga!»
Il nonno antico saggio che proviene dal frutteto dell’oblio con in mano un cesto di primizie, il farmacista che scrive poesie per la sua donna morta prima delle nozze, Carlotta l’amica di nonna speranza che sognava in riva al lago l’amore e che vestiva un abitino rosa durante una fotografia scattata nel 1850, la Cocotte che lo bacia furtivamente a 4 anni con un vago desiderio di maternità…
Solo questi personaggi danno consolazione all’anima che langue, poiché appartengono tutti al passato, sono rapiti come in una antica stampa, incontaminati e non corrotti dall’arido presente.
La critica del Gozzano diviene talmente universale che si ritorce persino contro lui stesso e la classe dei poeti…
Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s’avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.
Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all’arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
Persino contro il suo idolo della gioventù rinnegato in età adulta ( D’Annunzio )
L’alloro… Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui…
Il disprezzo nei confronti della società talvolta si tramuta in invidia nei confronti delle persone semplici, che ignorano il male che si apprende con la conoscenza e perciò vivono sereni, ” sanno che la terra è tonda perché l’hanno sentito dire “, ma non indagano, non si tormentano intendono la vita semplice delle cose comuni.
Forse soltanto la bella, dolce e sorridente, Graziella è immune dal male della società, poiché è giovane, incosciente ed inconsapevole della sua bellezza, ed anche in Graziella l’amore vero viene impedito dal tempo, lei è una avvenente diciottenne e lui un maturo “avvocato” turbato da quella “vergine apparita” e da quella via tutta fiorita di gioie non mietute.
Ed io godevo, senza parlare, con l’aroma
degli abeti l’aroma di quell’adolescenza.– O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia!(…)
«Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore…» – «O la Felicità!…»
Anche Graziella è una rosa non raccolta che fugge veloce con la sua bicicletta nell’ascesa e senza dire una parola incatena il povero poeta corroso dalla tabe letteraria. Ma nella poesia di Graziella si nota in sordina una storia parallela, quella della donna al fianco di Gozzano che sfiorisce di fronte alla giovinezza della bella bambina vivace e bruna.
(…)
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l’opera del bistrointorno all’occhio stanco, la piega di quei labri,
l’inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d’un bel biondo sereno.(…)
Ed un riferimento ambiguo, nella prima edizione della poesia, sul fatto che la donna al fianco di Gozzano fosse sposata eppure “portasse avanti” una relazione amorosa con il poeta :
(…)
«Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato: un amico
caro di mio marito. Dagli la bicicletta…»(…)
E seguitai l’amica, recando nell’ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica.
(…)
Ti rifarò bella, come Carlotta come Graziella… come tutte le donne del mio sogno
Così Gozzano si rivolgeva alla fantomatica Cocotte la cattiva signora che conobbe in un mattino nell’infanzia prima e che gli diete furtivamente un bacio e gli donò un confetto…
Prevale nella poetica Gozzaniana l’incapacità concepire l’amore, in una società borghese intesa alla moneta, rude, grezza e concreta l’unica Via di Salvezza è rappresentata dal rifugio e la contemplazione del passato. Un passato ancora romantico, spensierato, dolce come i canti del Prati che le due collegiali in ” L’amica di nonna speranza ” leggevano furtivamente sognando di fronte al lago il Principe Azzurro.
In Gozzano è presente la sfiducia nei confronti dell’uomo contemporaneo troppo preso dai commerci turbinosi, dall’affare, dalla conquista “…quei cosi con due gambe che fanno tanta pena ”
Il crepuscolarismo non è un movimento di denuncia, Gozzano rassegnato accetta ma nel contempo soffre una pena muta ed il desiderio di esilio nei confronti di un mondo troppo superficiale. Preferisce starsene in cucina fra le stoviglie, in una Villa Solitaria del Canavese, oppure solo in disparte dalla moltitudine e “dalla vita delle mille offerte”.
” Seduto dal margine di un fosso, sorrido e guardo passare gli altri, e mi fan pena tutti, contenti e non contenti, in carnevali o in lutti, tutti purché viventi”
Gozzano non crede in un Dio, è scettico nei confronti del destino della società, l’unico conforto lo riesce a trovare nel passato nella poesia e nelle cose buone di pessimo gusto del salotto della nonna Speranza…
Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all’anima che duole?
La Patria? Dio? l’Umanità? Parole
che i retori t’han fatto nauseose!…Lotte brutali d’appetiti avversi
dove l’anima putre e non s’appaga…
Chiedi al responso dell’antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l’indaga!»
Il nonno antico saggio che proviene dal frutteto dell’oblio con in mano un cesto di primizie, il farmacista che scrive poesie per la sua donna morta prima delle nozze, Carlotta l’amica di nonna speranza che sognava in riva al lago l’amore e che vestiva un abitino rosa durante una fotografia scattata nel 1850, la Cocotte che lo bacia furtivamente a 4 anni con un vago desiderio di maternità…
Solo questi personaggi danno consolazione all’anima che langue, poiché appartengono tutti al passato, sono rapiti come in una antica stampa, incontaminati e non corrotti dall’arido presente.
La critica del Gozzano diviene talmente universale che si ritorce persino contro lui stesso e la classe dei poeti…
Egli è poeta più di tutti noi
che, in attesa del pianto che s’avanza,
apprestiamo con debita eleganza
le fialette dei lacrimatoi.Vale ben più di noi che, fatti scaltri,
saputi all’arte come cortigiane,
in modi vari, con lusinghe piane
tentiamo il sogno per piacere agli altri.
Persino contro il suo idolo della gioventù rinnegato in età adulta ( D’Annunzio )
L’alloro… Oh! Bimbo semplice che fui,
dal cuore in mano e dalla fronte alta!
Oggi l’alloro è premio di colui
che tra clangor di buccine s’esalta,
che sale cerretano alla ribalta
per far di sé favoleggiar altrui…
Il disprezzo nei confronti della società talvolta si tramuta in invidia nei confronti delle persone semplici, che ignorano il male che si apprende con la conoscenza e perciò vivono sereni, ” sanno che la terra è tonda perché l’hanno sentito dire “, ma non indagano, non si tormentano intendono la vita semplice delle cose comuni.
Forse soltanto la bella, dolce e sorridente, Graziella è immune dal male della società, poiché è giovane, incosciente ed inconsapevole della sua bellezza, ed anche in Graziella l’amore vero viene impedito dal tempo, lei è una avvenente diciottenne e lui un maturo “avvocato” turbato da quella “vergine apparita” e da quella via tutta fiorita di gioie non mietute.
Ed io godevo, senza parlare, con l’aroma
degli abeti l’aroma di quell’adolescenza.– O via della salute, o vergine apparita,
o via tutta fiorita di gioie non mietute,forse la buona via saresti al mio passaggio,
un dolce beveraggio alla malinconia!(…)
«Fu taciturna, amore,
per te, come il Dolore…» – «O la Felicità!…»
Anche Graziella è una rosa non raccolta che fugge veloce con la sua bicicletta nell’ascesa e senza dire una parola incatena il povero poeta corroso dalla tabe letteraria. Ma nella poesia di Graziella si nota in sordina una storia parallela, quella della donna al fianco di Gozzano che sfiorisce di fronte alla giovinezza della bella bambina vivace e bruna.
(…)
Nulla fu più sinistro che la bocca vermiglia
troppo, le tinte ciglia e l’opera del bistrointorno all’occhio stanco, la piega di quei labri,
l’inganno dei cinabri sul volto troppo bianco,gli accesi dal veleno biondissimi capelli:
in altro tempo belli d’un bel biondo sereno.(…)
Ed un riferimento ambiguo, nella prima edizione della poesia, sul fatto che la donna al fianco di Gozzano fosse sposata eppure “portasse avanti” una relazione amorosa con il poeta :
(…)
«Ah! ti presento, aspetta, l’Avvocato: un amico
caro di mio marito. Dagli la bicicletta…»(…)
E seguitai l’amica, recando nell’ascesa
la triste che già pesa nostra catena antica.
(…)
Carlotta rappresenta un ulteriore amore irrealizzabile per una donna del passato ( una non goduta ) vista in una foto di famiglia che ritraeva lei e la nonna sedicenni, con la lunga gonna crespa, i capelli raccolti, il vestitino rosa e l’indice al labbro. Carlotta è la trasfigurazione dell’amore puro, romantico, vero, che sogna il principe azzurro, interroga curiosa una margherita, suona al piano un fascio di note passate, legge nelle Foscolo nelle aiuole e si illude di avere lo stesso nome della protagonista delle Lettere a Jacopo Ortis.
V.
Carlotta! nome non fine, ma dolce che come l’essenze
risusciti le diligenze, lo scialle, le crinoline…Amica di Nonna, conosco le aiuole per ove leggesti
i casi di Jacopo mesti nel tenero libro del Foscolo.Ti fisso nell’albo con tanta tristezza, ov’è di tuo pugno
la data: vent’otto di Giugno del mille ottocento cinquanta.Stai come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo
e l’indice al labbro, secondo l’atteggiamento romantico.Quel giorno – malinconia – vestivi un abito rosa,
per farti – novissima cosa! – ritrarre in fotografia…Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei
o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?
Ma ne ” L’Esperimento ” ( poesia che Gozzano aveva ripudiato ), questo sentimento puro viene corrotto dal poeta stesso che preso dal bisogno di vivere un amore d’altri tempi convince un’amica a vestirsi da Carlotta nel salotto di nonna, per farsi possedere fisicamente da lui, la fa vestire e pettinare come Carlotta per ingannare i sensi e creare promiscuità temporale. Ma nel momento più bello ed intenso della poesia la giovane “amica” commediante si lascia possedere troppo in fretta, lui la allontana e le dice ridendo che potrebbero arrivare gli Zii di nonna speranza, risorti anch’essi dal passato rievocato da quell’esperimento fallito.
(…)
Che giova amar?… La voce s’avvicina,
Carlotta appare. Veste d’una stoffa
a ghirlandette, così dolce e goffa
nel cerchio immenso della crinolina.
Vieni, fantasma vano che m’appari,
qui dove in sogno già ti vidi e udii,
qui dove un tempo furono gli Zii
molto dabbene, in belli conversari.Ah! Per te non sarò, piccola allieva
diligente, il sofista schernitore;
ma quel cugin che si premeva il cuore
e che diceva «t’amo!» e non rideva.
Oh! La collana di città! Vïaggio
lungo la filza grave di musaici:
dolce seguire i panorami arcaici,
far con le labbra tal pellegrinaggio!
(…)Dolce tentare l’ultime che tieni
chiuse tra i seni piccole cornici:
Roma papale! Palpita tra i seni
la Roma degli Stati Pontifici!
Alterno, amica, un bacio ad ogni grido
della tua gola nuda e palpitante;
Carlotta non è più! Commedïante
del mio sognare fanciullesco, rido!Rido! Perdona il riso che mi tiene,
mentre mi baci con pupille fisse…
Rido! Se qui, se qui ricomparisse
lo Zio con la Zia molto dabbene!
Vesti la gonna, pettina le chiome,
riponi i falbalà nel canterano.
Commediante del tempo lontano,
di Carlotta non resta altro che il nome.
Gozzano rappresenta un poeta tormentato, alla ricerca di un qualcosa che sa non raggiungere, vive in un mondo dove anche la poesia non lo consola poiché anch’essa è un qualcosa che ha a che fare con il commercio, il profitto, l’utile. L’esilio e la morte, queste le uniche soluzioni possibili per placare l’anima che langue.
Anche il possibile amore con la poetessa Amalia Guglielminetti, Torinese e contemporanea al Gozzano è destinato a finire irrimediabilmente per trasformarsi in un sentimento platonico ed epistolare ( d’altri tempi )
L’unico personaggio della letteratura gozzaniana ad essere realmente felice è la brutta, scialba, senza seno, volgare ed ignorante “Signorina Felicita” che inconsapevole di tutto cuce i lini, canta e ignora il male che si apprende con la cultura
(…)
Oh! questa vita sterile, di sogno!
Meglio la vita ruvida concreta
del buon mercante inteso alla moneta,
meglio andare sferzati dal bisogno,
ma vivere di vita! Io mi vergogno,
sì, mi vergogno d’essere un poeta!Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi… E non mediti Nietzsche…
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda…Tu ignori questo male che s’apprende
in noi. Tu vivi i tuoi giorni modesti,
tutta beata nelle tue faccende.
Mi piace. Penso che leggendo questi
miei versi tuoi, non mi comprenderesti,
ed a me piace chi non mi comprende.Ed io non voglio più essere io!
Non più l’esteta gelido, il sofista,
ma vivere nel tuo borgo natio,
ma vivere alla piccola conquista
mercanteggiando placido, in oblio
come tuo padre, come il farmacista…Ed io non voglio più essere io!
(…)
In un mondo dove il sentimento è defunto e non può tornare, Gozzano vive l’incapacità di provare l’amore e la terribile sofferenza di illudere chi è ignavo della sua condizione ” Ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono sentimentale, giovane, romantico, quello che fingo d’essere e non sono ”
Ah! Se potessi amare! – Vi giuro, non ho amato
ancora: il mio passato è di menzogne amare.– Mi piacquero leggiadre bocche, ma non ho pianto
mai, mai per altro pianto che il pianto di mia Madre.
Il concetto viene rafforzato ne “L’onesto rifiuto”, in cui Gozzano insorge con una critica a se stesso, consapevole d’aver illuso con l’arte dell’eloquenza una giovane e bella preda, ma non essere in grado di respingerla perché offuscato dalla brama e dal desiderio.
L’onesto rifiuto
Un mio gioco di sillabe t’illuse.
Tu verrai nella mia casa deserta:
lo stuolo accrescerai delle deluse.
So che sei bella e folle nell’offerta
di te. Te stessa, bella preda certa,
già quasi m’offri nelle palme schiuse.Ma prima di conoscerti, con gesto
franco t’arresto sulle soglie, amica,
e ti rifiuto come una mendica.
Non sono lui, non sono lui! Sì, questo
voglio gridarti nel rifiuto onesto,
perché più tardi tu non maledica.Non sono lui! Non quello che t’appaio,
quello che sogni spirito fraterno!
Sotto il verso che sai, tenero e gaio,
arido è il cuore, stridulo di scherno
come siliqua stridula d’inverno,
vôta di semi, pendula al rovaio…Per te serbare immune da pensieri
bassi, la coscienza ti congeda
onestamente, in versi più sinceri…
Ma (tu sei bella) fa ch’io non ti veda:
il desiderio della bella preda
mentirebbe l’amore che tu speri.Non posso amare, Illusa! Non ho amato
mai! Questa è la sciagura che nascondo.
Triste cercai l’amore per il mondo,
triste pellegrinai pel mio passato,
vizioso fanciullo viziato,
sull’orme del piacere vagabondo…Ah! Non volgere i tuoi piccoli piedi
verso l’anima buia di chi tace!
Non mi tentare, pallida seguace!…
Pel tuo sogno, pel sogno che ti diedi,
non son colui, non son colui che credi!Curiosa di me, lasciami in pace!
La malattia per Gozzano è un modo per estraniarsi dal mondo, una cosa che lo rende diverso, e questa eccezionalità andrà ad enfatizzare e caratterizzare gran parte della sua poetica. Molte delle poesie presenti nei colloqui infatti fanno riferimento esplicito al Leopardiano Amore e Morte, che Gozzano tento di attualizzare e modellare per descrivere la sua condizione. Persino in “Paolo e Virginia” la più struggente delle poesie di Gozzano c’è un riferimento velato alla tematica prevalente de ” I Colloqui ” proprio nella frase d’apertura ” Amanti, miserere, per questa mia giocosa aridità larvata di chimere “.
Il tempo passato è per Gozzano un nemico spietato che uccide i sentimenti, modifica le persone, altera i volti e distrugge la poesia. Per lui l’unico modo per fuggire l’onta della decadenza è fuggire in esilio, stare soli in disparte obliando l’anima ed aspettando la morte con la bertuccia e la ghiandaia come Toto Merumeni l’anti d’annunziano per eccellenza.
Secondo Gozzano infatti l’unico rimedio all’estinguersi dei sentimenti, al dileguarsi dei sogni ed allo sfiorire dei miti è la fuga (chissà quanti me stesso saranno morti in me stesso…)
Ma la mia Musa non sarà l’attrice
annosa che si trucca e pargoleggia,
e la folla deride l’infelice;giovine tacerà nella sua reggia,
come quella Contessa Castiglione
bellissima, di cui si favoleggia.Allo sfiorire della sua stagione,
disparve al mondo, sigillò le porte
della dimora, e ne restò prigione.Sola col Tempo, tra le stoffe smorte,
attese gli anni, senz’amici, senza
specchi, celando al Popolo, alla Cortel’onta suprema della decadenza.
Son passati quasi 100 anni dalla morte del tormentato poeta Gozzano, ma ancora c’è chi si interroga se in effetti la visione del povero Torinese anti d’annunziano sia stata soltanto generata dall’insoddisfazione, dall’imminente morte o se effettivamente Gozzano si sarebbe un giorno esiliato in una sperduta villa del canavese, ad attendere la vita ogni giorno, sereno, calmo, pacato,placido senza nessun pensiero o rimpianto, con la moglie zelante in cucina dai bianchi capelli, i figli benestanti borghesi in città e gli amici ogni sera al mesto convito a ricordare la giovinezza defunta.
Noi crepuscolari non lo crediamo morto,preferiamo immaginarlo la, in quell’ignota villa ancora a contemplare la bellezza dei cieli d’estate…
L’ipotesi
I.
Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via…E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie,
se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie.
II.Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta
tra gli agi, mutevole e bella, e raffinata e saputa…Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese
in un’antichissima villa remota del Canavese…Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca
dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca,ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato
e cuce e attende al bucato e vive secondo il suo nome:un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone,
che è come un lavacro benigno di canfora spigo e sapone…un nome così disadorno e bello che il cuore ne trema;
il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema,il fresco nome innocente come un ruscello che va:
Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!… Felicità…
III.Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille
d’un giorno d’estate, nel mille e… novecento… quaranta.(Adoro le date. Le date: incanto che non so dire,
ma pur che da molto passate o molto di là da venire.)Sfioriti sarebbero tutti i sogni del tempo già lieto
(ma sempre l’antico frutteto darebbe i medesimi frutti).Sopita quell’ansia dei venti anni, sopito l’orgoglio
(ma sempre i balconi ridenti sarebbero di caprifoglio).Lontano i figli che crebbero, compiuti i nostri destini
(ma sempre le stanze sarebbero canore di canarini).Vivremo pacifici in molto agiata semplicità;
riceveremmo talvolta notizie della città…la figlia: «…l’evento s’avanza, sarete Nonni ben presto:
entro fra poco nel sesto mio mese di gravidanza…»il figlio: «…la Ditta ha ripreso le buone giornate. Precoci
guadagni. Non è più dei soci quel tale ingegnere svedese».Vivremmo, diremmo le cose più semplici, poi che la Vita
è fatta di semplici cose, e non d’eleganza forbita.
IV.Da me converrebbero a sera il Sindaco e gli altri ottimati,
e nella gran sala severa si giocherebbe, pacati.Da me converrebbe il Curato, con gesto canonicale.
Sarei – sui settanta – tornato nella gioventù clericale,poi che la ragione sospesa a lungo sul nero Infinito
non trova migliore partito che ritornare alla Chiesa.
V.Verreste voi pure di spesso, da lungi a trovarmi, o non vinti
ma calvi grigi ritinti superstiti amici d’adesso…E tutta sarebbe per voi la casa ricca e modesta;
si ridesterebbero a festa le sale ed i corridoi…Verreste, amici d’adesso, per ritrovare me stesso,
ma chi sa quanti me stesso sarebbero morti in me stesso!Che importa! Perita gran parte di noi, calate le vele,
raccoglieremmo le sarte intorno alla mensa fedele.Però che compita la favola umana, la Vita concilia
la breve tanto vigilia dei nostri sensi alla tavola.Ma non è senza bellezza quest’ultimo bene che avanza
ai vecchi! Ha tanta bellezza la sala dove si pranza!La sala da pranzo degli avi più casta d’un refettorio
e dove, bambino, pensavi tutto un tuo mondo illusorio.La sala da pranzo che sogna nel meriggiar sonnolento
tra un buono odor di cotogna, di cera da pavimento,di fumo di zigaro, a nimbi… La sala da pranzo, l’antica
amica dei bimbi, l’amica di quelli che tornano bimbi!
VI.Ma a sera, se fosse deserto il cielo e l’aria tranquilla
si cenerebbe all’aperto, tra i fiori, dinnanzi alla villa.Non villa. Ma un vasto edifizio modesto dai piccoli e tristi
balconi settecentisti fra il rustico ed il gentilizio…Si cenerebbe tranquilli dinnanzi alla casa modesta
nell’ora che trillano i grilli, che l’ago solare s’arrestatra i primi guizzi selvaggi dei pippistrelli all’assalto
e l’ultime rondini in alto, garrenti negli ultimi raggi.E noi ci diremmo le cose più semplici poi che la vita
è fatta di semplici cose e non d’eleganza forbita:«Il cielo si mette in corruccio… Si vede più poco turchino…»
«In sala ha rimesso il cappuccio il monaco benedettino.»«Peccato!» – «Che splendide sere!» – «E pur che domani si possa…»
«Oh! Guarda!… Una macroglossa caduta nel tuo bicchiere!»Mia moglie, pur sempre bambina tra i giovani capelli bianchi,
zelante, le mani sui fianchi andrebbe sovente in cucina.«Ah! Sono così malaccorte le cuoche… Permesso un istante
per vigilare la sorte d’un dolce pericolante…»Riapparirebbe ridendo fra i tronchi degli ippocastani
vetusti, altoreggendo l’opera delle sua mani.E forse il massaio dal folto verrebbe del vasto frutteto,
recandone con viso lieto l’omaggio appena raccolto.Bei frutti deposti dai rami in vecchie fruttiere custodi
ornate a ghirlande, a episodi romantici, a panorami!Frutti! Delizia di tutti i sensi! Bellezza concreta
del fiore! Ah! Non è poeta chi non è ghiotto dei frutti!E l’uve moscate più bionde dell’oro vecchio; le fresche
susine claudie, le pesche gialle a metà rubiconde,l’enormi pere mostruose, le bianche amandorle, i fichi
incisi dai beccafichi, le mele che sanno di roseemanerebbero, amici, un tale aroma che il cuore
ricorderebbe il vigore dei nostri vent’anni felici.E sotto la volta trapunta di stelle timide e rare
oh! dolce resuscitare la giovinezza defunta!Parlare dei nostri destini, parlare di amici scomparsi
(udremmo le sfingi librarsi sui cespi di gelsomini…)Parlare d’amore, di belle d’un tempo… Oh! breve la vita!
(la mensa ancora imbandita biancheggierebbe alle stelle).Parlare di letteratura, di versi del secolo prima:
«Mah! Come un libro di rima dilegua, passa, non dura!»«Mah! Come son muti gli eroi più cari e i suoni diversi!
È triste pensare che i versi invecchiano prima di noi!»«Mah! Come sembra lontano quel tempo e il coro febeo
con tutto l’arredo pagano, col Re-di-Tempeste Odisseo…»Or mentre che il dialogo ferve mia moglie, donnina che pensa,
per dare una mano alle serve sparecchierebbe la mensa.Pur nelle bisogna modeste ascolterebbe curiosa;
– «Che cosa vuol dire, che cosa faceva quel Re-di-Tempeste?»Allora, tra un riso confuso (con pace d’Omero e di Dante)
diremmo la favola ad uso della consorte ignorante.Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d’infedeltà maritale,
che visse a bordo d’un yacht
toccando tra liete brigate
le spiaggie più frequentate
dalle famose cocottes…
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele…
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi…
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l’ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America…
– Non si può vivere senza
danari, molti danari…
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza! –
Vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia nel folle volo
vedevano già scintillare
le stelle dell’altro polo…
vïaggia vïaggia vïaggia
vïaggia per l’alto mare:
si videro innanzi levare
un’alta montagna selvaggia…
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Purgatorio
che trasse la nave all’in giù.
E il mare sovra la prora
si fu rinchiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell’Inferno
dove ci resta tuttora…Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia,
se già la Signora vestita di nulla non fosse per via.
Io penso talvolta…
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