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Fiume come teatro di elitarismo

Nella un po’ troppo sopravvalutata importanza della massificazione delle scelte, d’Annunzio si pone quale anticipatore dei principi di un’abile tecnica manipolatoria e possessore “della chiave delle moderne politiche per sé, al di là dei loro diversi orientamenti”, procedendo indistintamente al coinvolgimento del più ampio campionario di idealità nel panorama sia interventista, che prettamente fiumano (ricordiamo la grande quantità e qualità delle differenze ideali tra i combattenti dannunziani), esemplificando e tematizzando la tendenza a questa universalizzazione delle risorse statuali e militari nella redazione, tra le tante iniziative agonistiche e beffarde, di quel documento bizzarro che è passato alla storia come la Carta della Reggenza italiana del Carnaro, unico esempio nella carriera politica dannunziana di possibile disegno costituzionale di regolamentazione statuale, ed emblematico nel tentativo di interpretazione delle inquietudini sociali e dei fermenti politici europei al termine della prima guerra mondiale. Nella costante genesi dell’ascesa dannunziana ad elemento di coesione ai fini interventistici ed attivi, nel profilarsi e nel manifestarsi dell’attività bellica, Fiume e le imprese dalmatiche rappresentarono il teatro più evidente della influenza diretta nella vita politica e sociale operata dal poeta, non solo in termini strettamente organizzativi, ma soprattutto di asservimento delle prestazioni amministrative e militari della nazione alla ricerca costante di una consustanzialità onnipresente con la bellezza e la vita quotidiana ed istituzionale; un laboratorio costante di ritualità per una politica di massa. Nella convinzione che “non erano i trattati […] a dettare la legge, ma gli eroismi della guerra”, la città divenne il fulcro di una operazione elitaristica volta alla formazione ideale, diffusa ed esportabile, di una discrepanza sostanziale tra Essa e la Roma parlamentare; mentre da una parte, i cittadini fiumani concentravano nel proprio agire quotidiano un’indole alla cosciente trasfigurazione d’ogni attività nella creazione di una rinnovata località di eroismo e virilità, ereditando dalla recente tradizione delle trincee del Carso, e degli scontri sui vari monti istriani e dalmati, la spassionata e vitalistica tendenza al sacrificio volontario, la Roma istituzionale procedeva nel quotidiano disinteresse alle necessità annessioniste, proponendo la medesima politica “condotta da vecchi statisti nel chiuso di quattro mura e tra le volgarità del mondo post-bellico”. Cosicché, vagliato dalla visione discriminante e trasfigurante del poeta, che tentò di imporre un occulto complesso di potenti miti e simboli pensando ad una netta divisione tra un “supermondo” combattentistico ed irredento, ed un “sottomondo”, strettamente di politica ufficiale, estraneo a Fiume, ogni atto precedente ed antecedente alla “santa entrata” del settembre si ammanta di pagana sacralità civica, nonché di un’instancabile e martellante riproposizione di sé in chiave profetica e liturgica, portando quel rapporto già sperimentato a Roma ed a Genova dell’“io” e del “voi” a traguardi d’esaltazione del “comunismo” affratellante nella piazza come “chiesa” ideale di cittadini e soldati, trasfigurati in santi e martiri, sia nell’affermazione di principi, sia nella strumentale guida del popolo alla presa di posizione arbitrariamente più gradita, come nel caso dell’accettazione del modus vivendi (vedi appendice E). Il mito giovanilistico delle due Italie contrapposte in una costante incomprensione doveva, quindi, essere terreno di scontro tra le masse organizzate, eredi della futura lotta in virtù di quell’Italia che le trasfigura, e la restante forza del paese dismissoria nel confronti delle autorità extra-nazionali; una sorta di presentazione di un anti-partito di massa, fondato sulla modulazione militarista dei propri contenuti e sulle forme. Come ricorda Ledeen: “parte del rituale della moderna politica è nato a Fiume sotto la direzione di D’Annunzio, e il primo discorso dal balcone del nuovo comandante è stato il modello di tutte le arringhe dei mesi che seguirono”:

 

Italiani di Fiume, eccomi. Non vorrei pronunziare oggi altra parola. Ecco l’uomo; che ha tutto abbandonato di sé per esser libero e nuovo al servigio della Causa bella, della Causa vostra: la più bella nel mondo, e l’eccelsa, per un combattente che in tanta bassezza e in tanta tristezza cerchi ancora una ragione di vivere e di credere, di donarsi e di morire. Eccomi. Sono venuto per donarmi intiero.

Non facendosi attendere, Gabriele d’Annunzio già sperimenta nel primo confronto con la moltitudine fiumana un’operazione di strategico avvicinamento tra la sua figura, votata alla “Causa bella” dell’annessione “sacrale” di Fiume alla Madre Paria, e quella del Cristo (Ecce homo!) sacrificatosi per un’altra causa ma, nella visione dannunziana, molto vicina alla sua in quanto dettata dalla volontà di quel Dio, latino ed ebraico-cristiano nel contempo, che congiunge in unico corpo essenze ed intenzioni nell’esaltazione divina ed epica della stirpe che lo invoca. Tratti indubbiamente blasfemi, ma che nella poetica politica di d’Annunzio ricorreranno spesso proprio a giustificare, in una indotta convinzione consensuale della folla, le prese di posizione politiche e militari che ne connatureranno il periodo di comando.

Per altissimo beneficio teniamo la vostra accoglienza io e i miei compagni. E io mi credo aver qui il mio focolare, il mio altare, il mio tumulo, non come se da voi li ottenessi ma come se li ritrovassi dopo una oscura assenza, dopo una lunga navigazione: come se mi riconducesse all’approdo quel naviglio della mia gente d’Abruzzi […]. Or io voglio sentir rivivere nel mio sangue la sua maschia rudezza che prolunga nel passato la mia fedeltà.

Oltre al confezionamento dell’immagine ipostasizzata del Cristo nella natura umana di un d’Annunzio idolatrato, logos rinnovato della Patria, il sangue come idea inizia a proporsi quale elemento identificativo della stirpe, nonché come mezzo di comunicazione ed unione eroica tra popoli uniti da antichi vincoli, in questo caso commerciali, ma proiettati in una dimensione più legata alla solidaristica funzione comune della difesa della nazione; dietro al d’Annunzio-Cristo, ecco apparire poi le figure dei discepoli-eletti (“i miei compagni”) che, nella speculazione verticistica dell’organizzazione istituzionale dannunziana, dovranno comunicare con le folle il volere inderogabile del profeta, evitando a Lui il disopportuno, e mai fino in fondo sanato, contatto con la massa1. Un rapporto di stretta collaborazione, quindi, chiuso in una cerchia mai filantropicamente solidaristica, ma cameratescamente impegnata alla perfetta funzionalità della cosmogonia dannunziana, così come sembra affermare Antonella Ercolani: “[…] nella ricerca della comunanza della solitudine aristocratica del gruppo chiuso dei piloti, custodi dei valori dell’individualità eccellente recuperata alla massificazione di una guerra tecnologica e per questo anonima […]”11. Una comunità eletta, quindi, simile a quella che si ricomponeva attorno alle ceneri1 della “santa-prostituta” Mila ne La figlia di Iorio, luogo umano in cui d’Annunzio potrà riconoscere quelle caratteristiche del “codice eterno della verità di natura”1, e dove un ambiente rituale di “trasfigurazione ideale della vita”1 si farà portatore in nuce di grande trasmutazione futura e di abbandono della terra per lidi di più elevate montagne.

Nella scorsa notte, quando mancavano i carri, balzato con la mia febbre acuta dalla branda lacera, escii all’aperto, seguii perdutamente la mia smania. Scorsi la grande larva di Guglielmo Oberdan palpitante sopra quel tristo muro dove l’aveva agguantato il birro. Intravidi il folto delle croci nel vasto carnaio dei fanti, che al rombo del mio orecchio non erano ammutoliti ma comandavano. E deliberai di partire con i sette compagni giurati, con i sette miei giovani Granatieri che avevano segnato il patto, con questi che mi sono a fianco. Non li vedete? non li riconoscete? E diedi l’ordine. E fui pronto. E pronti essi furono. Ero certo di vincere anche con loro soli.

Dopo la trasfigurazione della persona del d’Annunzio in soggetto sacro1, e la presentazione ostensiva delle estensioni del suo corpo, congiuntamente ideali ed attive, incarnate nelle figure dei discepoli-compagni, la forma del viaggio fino a Fiume (una sorta di viaggio verso Gerusalemme) si carica di elementi mitici e ritualmente ieratici tendenti alla piena maturazione suggestionante delle motivazioni basilari dell’impresa stessa; dal focolare dell’idea votiva, sull’altare della celebrazione civilmente eucaristica, la comunicazione alla comunità, radunata per assistere e partecipare al rito rivelatorio, si palesa soprattutto quale giustificazione ad hoc della presenza dannunziana in Fiume, sulla base della superiore volontà “tumulare” non più umana, ma oramai laicamente trascendentale, degli eroi caduti nei carnai della guerra, al cui comando gli uomini sensibili alla chiamata missionaria non possono che dirsi “pronti” nonostante infermità (“la mia febbre acuta”) li perseguitino. Anzi, nella riproposizione dannunziana di sé, la componente febbrile, sconfitta dalla volontà e dall’acqua di Fiume, costituirà elemento pubblicitario non trascurabile.

Eccomi, con una volontà di rivolta e con una volontà di creazione che sapranno alzare in voi un sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più rapidi precursori. Se i nostri padri latini solevano fare una città al nome di un eroe o di una eroina o di un grande evento, noi vogliamo farne una al nome d’Italia, all’amore d’Italia, alla vittoria d’Italia, coi nostri cuori di credenti, con le nostre mani di combattenti.

Infine d’Annunzio, attenendosi all’ordine rituale più opportuno1, presenta, al centro della sua celebrazione, gli intenti attivi della sua presa di posizione politica e militare derivati dalla ispirazione eroica ricevuta, e dalla speculazione nazionalistica condotta sulla base delle influenze ispirate. Nobilitando gli effetti futuri della sua presenza nella città attraverso una referenzialità di livello nazionale, il fine ultimo si denota quale mutazione in emblema della stessa città di Fiume, nazionalizzata in esempio supremo di sacrificio e di luogo più adatto alla manifestazione della “bella” giovinezza e della vita, trasfigurandola, da città contesa, in città appunto di Vita bella, poiché tesa alla realizzazione del sogno di vittoria sulle egemonie europee ed atlantiche, nonché alla riproposizione delle antiche libertà comunali e, quindi, alla manifestazione della decima Musa. Una società militarizzata e gerarchizzata dove il riscatto al bello del popolo sopraggiunge in virtù della disciplina1; di essa, d’Annunzio ebbe a dire: “Fiume oggi soffia nel viso di tutti noi Italiani, ci avvampa il viso col suo soffio, e ci dice: Ricevete lo Spirito, ricevete la Fiamma. […] Così Fiume appare oggi la sola città vivente, la sola città d’anima, tutta soffio e fuoco, tutta dolore e furore, tutta purificazione e consunzione: un olocausto, il più bello olocausto che si sia mai offerto da secoli sopra un’ara insensibile. Anzi il nome giusto della città non è Fiume ma Olocausta: perfettamente consumata dal fuoco tutta. […] È la città olocausta, la città del sacrificio totale, la rocca del consumato amore: quella che riempie di fuoco (vedi Notturno) le occhiaie bianche di tutti i nostri morti marini radunati nel Carnaro a mirarla e a bearsi.”1 Il tutto benedetto sia dall’evocazione di eventi importanti avvenuti nella giornata che ha visto profilarsi la “santa entrata”, sia dalla presenza della bandiera macchiata di sangue, stesa dal balcone a vessillo e dono sormontante la folla, in cui il corpo del fante Giovanni Randaccio è stato avvolto1, immagine prima di una lunga serie legata al valore civile e sacrale impresso ad alcuni oggetti, carichi di presagi e laica forza accomunante, e destinati ad una perenne ostensione a giustificazione della presenza attiva della folla e di chi la guida.

Come gettai sul tricolore una lunga banda di crespo nero, il vento improvviso la investì e la sollevò, quasi volesse distogliere il lutto. Tutto il popolo nuovamente gridò al presagio. Italiani di Fiume, ora spiego il gran Segno. Vi mostro questo sudario del sacrificio, questo indizio fatale del compimento. Sciolgo il voto in Fiume d’Italia.

L’organizzazione collettiva diveniva quindi la mossa tangibile di una particolare azione eroica sulle masse, sovrastando nella sua totalizzazione dell’agire ogni tratto fisiocratico e politico in virtù della sostanza mitica dell’unione: l’unità dello Stato si faceva garante di una parallela fortezza morale, manifestata dal legame indissolubile con la tradizione di un passato risorgimentale e combattentistico impresso negli oggetti di culto votivo. Tra i vari oggetti che la prassi dannunziana elevò a simboli sull’altare della virilità e del sacrificio1, la “fiamma” (vedi Carta della Reggenza italiana del Carnaro) si proietta in una dimensione centrale nella cultualizzazione istituzionale. Antico simbolo religioso, da alcune fedi considerato quale manifestazione fisica ed eterna della presenza divina tra i fedeli, a Fiume il suo uso simbolico si connaturò obbligatoriamente alla presenza mistica della discesa nel mondo della Musa “Energia”, e venne esteso, dalla parentesi strettamente militare ed ardita, alla ritualizzata forma di aggregazione comunale nella quale tutti i cittadini idealmente si consumavano nell’attuazione appassionata dell’ideale civile, tramutando la posizione della città stessa, da mero insediamento abitativo, a condizione “olocausta”, principio di un incendio spirituale che avrebbe “consumato tutto il mondo corrotto e decrepito dell’occidente e lo avrebbe purificato, trasformandolo alla fine in qualcosa di più bello e di più santo.”11

Al termine di ciò, nella piena correttezza della prassi cultuale, l’intonazione di un “Credo” laico e militarista chiude la celebrazione momentanea degli eroi e della città, ora non più semplicemente tali di per sé ma trasfigurati in un tutt’uno desoggettivante, sacrificale e reciprocamente mimetico dove la sorte dell’una diviene complementare alle vicissitudini degli altri in un connubio di necessario attivismo e resistenza1, e in previsione della epifania invocata del “Regnum Dei” in terra sotto forma di annessione definitiva dell’Istria e della Dalmazia all’Italia:

Ebbene, dopo questo unanime grido che risponde alla stessa mia violenza di ribellione, alla mia stessa potenza di creazione, dico sotto il cielo aperto, in vista dell’Adriatico: IO VOLONTARIO, IO COMBATTENTE DI TUTTE LE ARMI, FANTE, MARINAIO, AVIATORE, IO FERITO E MUTILATO DI GUERRA CREDO INTERPRETARE L’ANSIA PROFONDA DI TUTTA LA MIA NAZIONE VERA DICHIARANDO OGGI RESTITUITA PER SEMPRE LA CITTA’ DI FIUME ALL’ITALIA MADRE.

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